Diocesi
S.E. Nunzio Galantino: no agli slogan e alle curve da stadio, stiamo ai dati e siamo leali
Dai migranti al fine vita, dalla famiglia al senso della vita: tocca i confini dell'uomo di oggi l'ultimo libro di mons. Nunzio Galantino per il quale ogni confine è sempre una doppia possibilità: di netta divisione e scontro o di dialogo e di incontro.
Si intitola “Sul confine. Incontri che vincono le paure” l’ultimo libro di S.E. mons. Nunzio Galantino, già segretario della Cei, ora presidente dell’Apsa (organismo che si occupa dell’amministrazione del patrimonio della Santa Sede). Presente a Pordenone lunedì 30 settembre per la presentazione del volume in concattedrale San Marco, ci ha concesso un’intervista.
S.E. cominciamo da un confine che è all’ordine del giorno, dato che in Italia si dibatte sul fine vita.Nel libro parlo di casi passati: da Alfie Evans al Dj Fabo. Il tema è però ancora vivo. La prima cosa da dire è che tutto questo guardare al diritto e alla dignità del morire ci sta, ma dovrebbero esserci pure delle proposte riguardanti l’accompagnamento della sofferenza. Mi preoccupa vedere che la politica si dedica più alla morte dignitosa che non alla vita dignitosa di chi soffre. Penso alle cure palliative: so che stanno funzionando ma so anche che in Italia non sono diffuse ovunque alla stessa maniera. Purtroppo, alcuni ragionamenti che sono oggi in circolo attaccano princìpi che stanno alla base del rispetto della vita. Non è un giudice che deve decidere se uno deve morire o no.Scrive che l’eutanasia rappresenta “una risposta sociale troppo superficiale e sbrigativa”. Una scorciatoia?Sì, e lo dico con grande rispetto non per i politici ma per chi sceglie questa via; rispetto per la loro sofferenza e quella delle loro famiglie. Per esperienza dico che, adeguatamente supportati, alcuni di loro non arriverebbero a tanto. Mi chiedo perché si arriva a desiderare la morte? Perché la persona non vede più il senso della propria vita. Credo che molto spesso questi malati rinunciano perché non viene adoperato ogni mezzo per dare sollievo, vicinanza, consolazione. Questo, e lo ripeto, senza giudizi su chi dovesse comunque scegliere questa strada definitiva, come il DJ Fabo.Altro confine è quello dei migranti. Lei dice che la diffusa paura è figlia di un linguaggio sbagliato. Dei media, dei poltici?Non lo dico io, basta far riferimento alle varie agenzie di ricerca. Ne cito uno noto: Pagnoncelli. C’è una forte idiosincrasia tra il dato reale e la realtà percepita: vale per il numero dei migranti presenti, che sono il 7% ma si credono il 30%, o per i richiedenti asilo che non vanno oltre l’1,8% e si credono molti di più. C’è la responsabilità di chi fa informazione, o disinformazione, come di chi mette i migranti nell’agenda elettorale perché ha capito che rendono alle elezioni.Definisce una “cattiva pratica” collocare la questione migranti solo nel quadro della sicurezza.Basterebbe andare a riguardare i due ultimi decreti sulla sicurezza: non ci vuole un filosofo per dire che non si può confondere la condizione con il comportamento. Ovvero l’essere migrante con il delinquere. Se lo si fa è perché questo elettoralmente rende. Ciò non toglie che l’accoglienza sia difficile e impegnativa. Che sia una fatica. Ma non possiamo guardare ai migranti solo cavalcando le paure. Guardiamo ai dati.S.E. a volte non è facile neppure far passare le giuste informazioni. Ci sono sordi che non vogliono sentire. Nello Scavo, giornalista di Avvenire, riguardo i campi in Libia ha dichiarato: non so più che parole usare. Anche lei ha visitato i campi ad Erbil, in Giordania…E posso dire lo stesso. Se racconto mi sembra di fare demagogia. Ho davanti a me gli occhi, volti, storie… So che l’accoglienza è difficile. Io ho cominciato nel 1984 in Puglia nella mia parrocchia ad accogliere una persona in difficoltà: non è andata bene, è tornato al suo comportamento scorretto. Era un italiano. Ma questo insuccesso non ha cambiato il mio atteggiamento nei confronti dell’accoglienza.Non schieriamoci nelle curve dello stadio, ma guardiamo ai fatti e ai numeri. Così è un dato di fatto che col decreto sicurezza abbiamo chiuso strutture e reso clandestini chi ci stava dentro. E’ un dato di fatto che mentre si faceva delle navi delle Ong un caso discusso per giorni, nel silenzio gli sbarchi continuavano da un’altra parte. Senza dire di tutte le persone arrivate qui da via terra, che sono molte di più. Ecco, lo slogan è una cosa, la realtà è un’altra. La realtà serve anche per non prendere in giro le persone, perché vogliamo essere leali.Tra una Chiesa in uscita e gli stati laici che si chiudono coi muri come è possibile il dialogo?Non è necessario trovare sempre la quadra quando le ispirazioni di fondo sono tanto diverse.Papa Francesco è spesso criticato per il suo attegiamento verso i migranti. Lei ricorda che non è certo il primo papa ad esserlo.Non capisco questa paralisi della memoria che ci è venuta. Non ricordiamo Benedetto XVI, Giovanni Paolo II, Paolo VI, Giovanni XXIII. Siamo alla 105ª Giornata del Migrante e del rifugiato: dov’è la novità? Da una parte i papi hanno sempre parlato di accoglienza, dall’altra Francesco ha molti altri temi cari: le periferie, l’ambiente… Anzi, le critiche contro di lui vengono perché, parlando di ambiente e finanza etica, tocca nervi scoperti. E comunque parlare di migranti non è un peccato. É scritto: “Ero forestiero e mi avete accolto…”.Il papa ha dedicato un sinodo ai giovani. Il nostro vescovo ha scritto una Lettera pastorale dedicata ai giovani. Lei come li vede?Io parlerei piuttosto degli adulti e del loro paternalismo, come di chi è pronto a dire e a dare, ma non a trovare qualcosa nei giovani, come se i giovani non avessero in sè ricchezze. Cominciamo allora a cambiare gli occhi con cui li guardiamo o questo iato generazionale si farà sempre più grande e faremo dei giovani una sacca di emarginati.Scrive che la Chiesa sta facendo una rivoluzione gentile e decisa. Cosa significa?Gentile perché senza armi né parole arroganti che lo stile di oggi porta al margine della sopportabilità per avere più effetto. Decisa significa con insistenza, ripetuta. Il papa invita il credente al protagonismo, all’azione.Il suo nuovo incarico la porta ad occuparsi del patrimonio della Sede apostolica: in concreto come?Significa smettere di demonizzare la ricchezza: io posso avere solo 10 euro e spenderli per una dose o darli a chi è nel bisogno.Circa il patrimonio della Chiesa: se qualcuno invece che sparlare studiasse la storia farebbe delle belle scoperte. Per esempio, che il patrimonio della Chiesa viene da una parziale restituzione dei beni sottratti da parte dello Stato. Con i Patti lateranensi del 1929 vennero restituiti 750 milioni di lire di allora. Pio XI, per evitare quanto era già accaduto, li fece investire. Lo stesso faccio io oggi: metto a frutto quando ha la Chiesa, affinchè la stessa abbia libertà d’azione e possa essere vicina a chi si trova nel bisogno, ad esempio attraverso l’Elemosineria apostolica. Io stesso firmo non meno di 200-250 assegni la settimana per il Papa.Può dire per chi, che cosa?Aiuti che Francesco dà a situazioni o a singole persone.Definisce gli uomini d’oggi “mendicanti di senso”.E’ la logica e tragica conseguenza del nostro fermarci alla superficie delle cose, guidati dalle emozioni del momento, perdendo il senso profondo del tutto. Nella Bibbia c’è un’immagine: i gobbi di Javhè, che camminavano con la mano aperta e tesa in avanti. Dovremmo farlo anche noi: cercatori, mendicanti alla ricerca del senso vero dell’esistenza.Nel suo libro scrive: “La famiglia non è il problema, è la soluzione”. E’ un rivoluzionario…Intendo questo: si abbina sempre la parola famiglia alla parola problema. Non è tutto facile, nè tutto come un tempo, nè la famiglia da Mulino bianco. Precisato questo, chiedo: quando c’è un problema vero il giovane da chi va? Non bussa alla chiesa, torna a casa, dai genitori. A chi si lasciano i bambini piccoli se non ai genitori? A chi si chiede aiuto? Allora la famiglia, pure nelle difficoltà e diversità d’un tempo, è ancora la soluzione.
Simonetta Venturin