Commento al Vangelo
Domenica 8 settembre, commento di don Renato De Zan
Mettere Dio al primo posto nel cuore: il credente ha bisogno di sapienza per saper discernere le cose del cielo e quelle della terra
Lc 14,25-33In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.
Tematica liturgicaIl credente ha bisogno di sapienza per saper discernere le cose del cielo e quelle della terra. Il saggio veterotestamentario è ben conscio di questo dato: “A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?” (1° lettura, Sap 9,13-18b)”. I ragionamenti umani sono “timidi” e “incerti” perché “la tenda d’argilla (il corpo) opprime una mente piena di preoccupazioni”. Senza la Sapienza, dunque, non si può conoscere il volere di Dio. La Liturgia trasforma il bisogno in preghiera. Nella petizione della Colletta propria, l’assemblea chiede al Padre: “Donaci la sapienza del tuo Spirito”. Nel ritornello del salmo responsoriale, la comunità ripete: “Donaci, o Dio, la sapienza del cuore” (allusione al testo ebraico di Sir 45,26).Sappiamo che nel mondo biblico c’era una sapienza buona e una cattiva. Con la prima l’uomo sapiente (hakam) pone al centro dell’attenzione Dio e l’uomo. Con la seconda l’uomo astuto (’arum) pone al centro la propria visione delle cose. Occorre, dunque, la buona sapienza per accogliere le parole di Gesù. C’è, tuttavia, un problema da chiarire: il linguaggio di Gesù. È tipico, infatti, del linguaggio semitico esprimersi per antitesi forti. Basta ricordare la drasticità di Gesù nella seguente frase: “Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro” (Lc 16,13). L’espressione che ascoltiamo nel vangelo odierno (“Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”) appartiene a questo linguaggio forte. Di fronte, dunque, alla proposta di Gesù è necessario fare una scelta forte. C’è chi è stato capace di farla (i discepoli) e chi non è riuscito a farla e se ne n’è andato triste come il giovane ricco davanti a Gesù (cfr Lc 18,18-23).
Dimensione letterariaIl testo evangelico di Lc 14,25-35 è cadenzato in questo modo. Lc 14,25 introduce lo scenario ed è creazione dell’evangelista. Lc 14,26-27 contiene due detti sapienziali (costruiti allo stesso modo: secondaria + principale) sulle condizioni per seguire Gesù. In Lc 14,27-32 vengono presentate due parabole (torre; guerra) per illustrare la ponderatezza della scelta di essere discepoli. Chiudono il brano due detti sapienziali (Lc 14,33-35): uno sui beni (libertà del discepolo) e uno sul sale (perseveranza del discepolato). Il testo è costruito sulla struttura concentrica (a-b-a’): a. due detti sapienziali; b. due parabole; a’. due detti sapienziali. La Liturgia ha modificato l’incipit originale (testo biblico: “Una folla numerosa andava con lui.”; testo biblico-liturgico: “In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù”). La seconda modifica riguarda la soppressione del detto sul sale (Lc 14,34-35), che toglie il tema della perseveranza nel discepolato. La pericope biblico liturgica, tuttavia ha il pregio di aprirsi e chiudere con lo stesso ritornello, che in qualche modo funge da inclusione: “Non può essere mio discepolo” (Lc 14,26.27 e Lc 14,33). Il testo che resta (Lc 14,25-33) è cadenzato dal ritornello: “Non può essere mio discepolo”, che a livello di struttura seziona il testo in tre parti: la rinuncia all’affetto e alla vita come cose assolute (Lc 14,26); l’accoglienza della croce – intesa come solitudine, incomprensione, sofferenza- (Lc 14,27); la rinuncia ai propri averi (Lc 14,28-33, che viene illustrata da due paragoni: la costruzione di una torre, la dichiarazione di guerra).
Riflessioni biblico-liturgichea. Non è facile accettare che Dio sia al primo posto nelle nostre relazioni importanti. Bisogna, però, ricordare che Dio non occupa spazio nel nostro cuore. Egli è come il profumo o come la musica. Riempie il cuore, ma lo lascia disponibile perché venga abitato dalle persone amate.b. Non è facile accettare la propria croce: rimanere, cioè, soli e non capiti da parte delle persone care a causa delle scelte di fede che il discepolo ha fatto (il cristiano, però, non è mai solo perché il Signore ha garantito: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”: Mt 28,20).c. Infine, il distacco dai beni non è facile. Non basta sapere che “l’avarizia insaziabile” “è idolatria” (Col 3,5). È necessario un cuore libero. Gesù aveva detto che sono beati coloro che sono poveri nel cuore.