L'Editoriale
Un sogno in mezzo al mare
C'è chi si sente minacciato da chi, di fronte d un altro uomo che annega, si sente in dovere di intervenire. Colpevole di portare avanti il sogno di giustizia anche se va contro il diritto di uno Stato. Sogno di giustizia tra gli uomini che una vecchia Carta dice nascere tutti uguali.
I cristiani sono minoranza, ma non per questo devono tacere il loro dire su quanto accade nel mondo o sotto casa. Piccoli come granelli di senape, ma attivi come il lievito: ce lo hanno detto fin dal principio.La vicenda della nave Sea Watch ha riempito pagine di parole; i canali tv di immagini e pareri; i social di sfoghi che, se celati, avrebbero lasciata un po’ meno offesa la dignità umana. Non dei migranti, nostra.Siamo consapevoli che la questione dell’ accoglienza e dello stesso soccorso ci mettono nella zona del non consenso. Eppure.E’ indubbio che la faccenda è l’emblema dell’incapacità di gestire un fenomeno che è lasciato al caso. E il caso ha posto l’Italia davanti alle coste africane. Ma la volontà di una parte di noi italiani, ben accompagnati da molti altri europei, preferisce occuparsi d’altro.E’ evidente che molte persone non si sentono chiamate in causa. Non sentono che quegli occhi e quelle braccia tese e quei cartelli richiedenti aiuto sono rivolti a chiunque li possa vedere, noi compresi.Il “non mi interessa” non è proprio lo stile dei cristiani. Anche se fin dal Samaritano ci sono quelli che tirano dritto e poi ce n’è uno che non ce la fa. E si ferma. E soccorre. In Italia lo abbiamo fatto egregiamente, Lampedusa è stata immensa in questo sforzo.C’è chi sente ancora l’I Care di don Milani. Una delle tante accoglienze degli ultimi della storia: dai monelli di Don Bosco ai moribondi di Madre Teresa, dai mutilatini di don Carlo Gnocchi alle prostitute di don Oreste Benzi. Sono tanti quelli che – imitando il Maestro – hanno aperto le braccia a maddalene e zacchei. L’accoglienza ci appartiene.È però scritto: candidi come colombe, astuti come serpenti. Il che vuol dire soccorrere chi soffre senza chiudere gli occhi né su chi ne aumenta le sofferenze né su chi volge altrove lo sguardo.E’ quindi altrettanto vero che molte delle argomentazioni portate da chi lascia la nave galleggiare sono inoppugnabili. La prima riguarda il resto dell’Europa. Del suo silenzio è figlia la domanda: perché in Italia e non in Spagna o in Francia? Con quale incoerente nonchalance l’Olanda e il Lussemburgo dichiarano che soccorrere non è reato ma poi non collaborano alla gestione di chi sbarca? Lo stesso dicasi per la Germani che ha rispedito in Italia i migranti non graditi.Ma c’è anche un’altra domanda: come mai, dopo anni di migrazioni che bussano alle porte, per terra e per mare, dalla Sicilia alla Slovenia, non si riesce a disegnare risposte che non siano un muro o un filo spinato?L’Europa lascia la grana a chi è in prima linea, piuttosto che studiare una strategia di intervento condiviso che freni il flusso ma in modo umano, portando sviluppo e non novelli lager. Eppure, attraverso nuove politiche migratorie, potrebbe farsi nuovamente quella maestra di civiltà che è stata e non una regina stanca che si chiude nel suo castello sempre più spopolato e vecchio.E’ in questo vuoto di risposte che le paure attecchiscono, crescono, vengono cavalcate e ci rendono più fragili. Tanto da sentirci minacciati dal capitano donna di una nave, che ha la colpa di essere un’idealista che non sta con le mani in mano mentre il prossimo annega. E tra azzardi ed errori e una linea pur non tutta condivisibile porta avanti il suo sogno di giustizia anche contro il diritto di uno Stato. Sogno di giustizia tra gli uomini che una vecchia Carta dice nascere tutti uguali. Quel sogno non è mai sbagliato. Come il portare aiuto a chi lo sta implorando.