Il Natale trasforma

Che Natale sarebbe se non trasformasse le nostre vite e la nostra città? Se non mettesse in crisi le distanze che poniamo tra noi e gli altri?

Natale è tempo di regali. Ci si può sbizzarrire tra le migliaia di possibilità offerte dalla società dei consumi oppure si può creare un piccolo presente con le proprie mani. Non è detto che questo dono sia meno gradito a chi lo riceve, soprattutto se accompagnato da un biglietto sincero o da un gesto spontaneo.

Mi ricordo a tal proposito un episodio della vita di san Francesco riportato nella lettera pastorale “Toccare la carne di Cristo. Incontrare, conoscere, condividere la vita dei poveri”. Descrive l’incontro tra il santo e un lebbroso sulla via per Foligno. I malati di lebbra vivevano fuori città, lontani da chiunque; al più si avvicinavano alle strade alla ricerca di un tozzo di pane. Da parte sua, Francesco era portato a rifuggire il contatto con persone contagiose e messe ai margini: all’epoca era ancora il figlio di un ricco mercante con un brillante futuro davanti a sé. Ciò che si produsse in quell’attimo ha del miracoloso: «Il lebbroso, che gli aveva steso la mano, come per ricevere qualcosa, ne ebbe contemporaneamente denaro e un bacio».

Il giovane avrebbe potuto decidere di non dar nulla e proseguire al galoppo; oppure afferrare al volo qualche moneta e gettarla dall’alto della cavalcatura. Avverte invece qualcosa che lo smuove dentro: scende, abbraccia il lebbroso e lo bacia. Francesco non lo sa ancora, ma ha iniziato a «toccare la carne di Cristo»: da questo momento la sua vita non sarà più la stessa; e, con la sua vita, anche la storia di Assisi, la vicenda del suo tempo, forse la vicenda di ogni società degna di questo nome.

Che Natale sarebbe se non trasformasse le nostre vite e la nostra città? Se non mettesse in crisi le distanze che poniamo tra noi e gli altri? Che venuta del Signore sarebbe quella che non ci spingesse a far spazio a chi abita luoghi disagiati o tende una mano alla ricerca di un soccorso? Soprattutto non sarebbe, la nostra, una vera festa se ci inondassimo a vicenda di regali in attesa di qualche contraccambio: quel do ut des che può aver senso in talune dinamiche economiche ma che rappresenta la morte delle relazioni umane, familiari e sociali. Perché anche la società, anche le nostre comunità, hanno bisogno di abbracci e di baci.

Un bisogno di tenerezza che trova nuovo slancio per essere ammesso in un mondo dove la forza sembra avere la meglio nel presepe che è per eccellenza uno dei simboli del cristianesimo perché ci presenta il fatto dell’Incarnazione di Gesù. Potremo dire che l’albero di Natale ci ricorda la crocifissione di Gesù e il Presepe invece l’Incarnazione. Così lo voleva San Francesco che a Giovanni, un uomo della contrada di Greccio, due settimane prima di Natale disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello” (Fonti Francescane 468). San Francesco desiderava che Gesù Bambino fosse contemplato non solo con l’intelligenza ma anche con gli occhi. Il presepe non è dunque una delle tante luminarie che dicono il Natale consumistico, ma è il segno dell’Incarnazione di Dio: per questo non può divenire motivo di contrapposizione tra noi, ma al contrario ci unisce trovando posto nelle chiese, nelle case, negli ospedali, nelle fabbriche diventando così occasione di preghiera per tutti. W il presepio e auguri a tutti, nessuno escluso, per un Buon Natale!

Giuseppe Pellegrini

Vescovo di Concordia-Pordenone