Diocesi
Perdonanza Bibionese: omelia del cardinale Bassetti
Il Cardinale: "Il Giubileo, che apriamo questa sera, Carissimi fratelli e sorelle, sia dunque per tutti un tempo di discernimento personale e comunitario, che ci dà la possibilità di riprendere con slancio il cammino dell’evangelizzazione e della testimonianza cristiana, fatta di amore, di perdono e di accoglienza reciproca"
Carissimo fratello vescovo Giuseppe Pellegrini, carissimo parroco Don Andrea Vena, carissimi sacerdoti e consacrati, distinte autorità, fratelli e sorelle tutti.
Con gioia ho accolto l’invito del vescovo e non sono voluto mancare a questo appuntamento con la “perdonanza di Bibione”, evento pastorale che ormai da alcuni anni segna la vita della Diocesi di Pordenone-Concordia. Per me, che vengo dall’Umbria, non è difficile comprendere il senso di questa celebrazione che si protrae per alcuni mesi e che offre a migliaia di persone la possibilità di accostarsi ai sacramenti, in special modo a quello della riconciliazione, e fare così la profonda esperienza del perdono e dell’amore di Dio.
Proprio oggi in Assisi migliaia di fedeli si sono accalcati nelle basiliche francescane per ricevere l’indulgenza del “Perdono della Porziuncola”. Ma vi sono tanti altri santuari in Umbria ove questo tempo di riconciliazione e di ritorno alla vita di fede viene vissuto tutto l’anno. Il Signore Gesù, del resto, ci offre sempre la possibilità di sperimentare il suo amore infinito. Egli che non è venuto per i sani ma per i malati; Egli che si è chinato sui peccatori; Egli che ha offerto il suo perdono incondizionato a quanti a Lui si sono avvicinati con fede e umiltà.
La pagina del vangelo che abbiamo ora ascoltato vuol dirci che non dobbiamo aspettare ancora per ricevere misericordia da Dio. La proclamazione del Giubileo, l’apertura delle porte della misericordia, il perdono dei peccati, non riguardano un passato ormai trascorso, il giorno di “ieri”; non è nemmeno in un futuro remoto, per “domani”; è – come abbiamo sentito dalle stesse parole del Signore – una realtà che riguarda l’“oggi”.
L’evangelista Luca racconta di come Gesù, tornato nella sua patria, a Nazaret, abbia tenuto quella che potremmo definire l’omelia più breve e più efficace della storia. Dopo aver egli stesso ascoltato, immaginiamo, una lunga pagina della Torà (il Pentateuco), riceve il rotolo dall’inserviente e sale a leggere. Il commento di Gesù al testo di Isaia è lapidario, composto di nove parole in tutto, eppure lascia un segno che noi cristiani ancora oggi dobbiamo portare come annuncio di gioia e speranza. Le parole del profeta Isaia avevano sullo sfondo, a guardar bene, quell’anno giubilare che, secondo le notizie storiche in nostro possesso, non era mai stato attivato o celebrato. Ora, il profeta Isaia si era già rifatto a quell’antica istituzione, per profetizzare che se anche Israele non l’avesse mai inaugurato, Dio stesso avrebbe decretato l’apertura di un Giubileo.
È da qui che prende senso il racconto di Gesù nella sinagoga di Nazaret, e si spiega lo stupore di coloro che lo ascoltano e non si aspettavano tali parole. Gesù infatti ha il coraggio e la pretesa di dire che la liberazione dai debiti non sarà più attesa, ma avviene già, adesso, con la sua persona: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura». Quei debiti rimessi, però, non sono più semplicemente economici, come era previsto dalla legge del Giubileo, ma hanno a che fare con qualcosa che tocca ancora più profondamente l’esperienza umana: i peccati. Ecco perché nella preghiera del Pater,quando diciamo «Rimetti a noi i nostri debiti» (cf. Mt 6,12), in effetti chiediamo che siano perdonati i nostri peccati.
Non possiamo però disgiungere i due significati del Giubileo, quello antico e quello proclamato da Gesù a Nazaret, il primo riguardante la dimensione sociale della remissione dei debiti, e il secondo legato alla persona del Messia Gesù, che tocca la remissione dei peccati.
L’ideale per il quale i debiti monetari potevano essere rimessi per dare la possibilità di iniziare da capo è certamente ancora valida: gli oppressi di oggi che non vedono una via di uscita dalla povertà devono ancora essere aiutati, pena ridurre il cristianesimo a una semplice enunciazione buonista di misericordia. La Chiesa delle origini, infatti, mentre annunciava il vangelo e il perdono dei peccati, agiva anche attraverso varie forme di carità e accoglienza, al punto che, leggiamo negli Atti degli Apostoli, «Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (4,34-35).
Non si può vivere una vita cristiana semplicemente domandando misericordia per sé e poi rimanere chiusi agli altri; nelle parole di Gesù del Discorso della montagna, in particolare, non solo si trova l’invito a pregare o a digiunare, ma anche a soccorrere l’altro con le opere di carità (cf. Mt 6,1-18). La prima lettura con le parole del profeta Ezechiele ci ha presentato un Dio che è un pastore buono che viene a cercare le pecore perdute, ferite e malate, e che chiede a noi di fare lo stesso. La porta della misericordia sia segno di uno spazio aperto, dal quale possiamo passare noi e nel quale aiutiamo gli altri ad entrare.
Papa Francesco in occasione del recente Giubileo della Misericordia ha parlato di un “tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti” (MV 3), ma anche di occasione propizia per chi non crede per affacciarsi insieme alla porta dell’umanità e “guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità” (MV 15), pronti ad ascoltare il grido di aiuto.
Il Giubileo si pone, per certi versi, anche come una provocazione per l’uomo contemporaneo che non vuole chiedere perdono a nessuno e neppure perdonare, non solo perché ha perso il senso del divino e del peccato, ma perché, rinchiuso com’è nel proprio egoismo, è sopraffatto dall’apatia. Scrive il beato Paolo VI a proposito del “Perdono della Porziuncola”: “Ci è lecito accedere al regno di Cristo soltanto attraverso il cambiamento profondo di tutto l’essere”, che avviene quando ognuno “inizia a mettere in ordine la propria vita, colpito dalla santità e dalla carità di Dio”.
In questo tempo segnato sempre più da indifferenza e violenza, mi preme sottolineare la bella Lettera Pastorale del vostro Vescovo per il prossimo anno pastorale diocesano, con un titolo che ci immette subito nel concreto “Toccare la carne di Cristo. Incontrare, ascoltare e condividere la vita dei poveri”. La stessa visita pastorale che Lei eccellenza ha iniziato nel territorio della Diocesi, sono sicuro che Le sta dando occasione di toccare la carne di Cristo. E questo sia un invito per tutti noi, nessuno escluso, a lasciare toccare dai poveri, ovvero da Cristo.
Papa Francesco non si stanca di renderci partecipi di ciò che ha sperimentato nella sua vita di pastore. Venuto “dalla fine del mondo” con salutare energia, con lo sguardo sulle “periferie” che gli è proprio, ha percepito che “la Chiesa, in questo momento di grandi cambiamenti epocali, è chiamata ad offrire più fortemente i segni della presenza e della vicinanza di Dio. Questo non è il tempo per la distrazione, ma al contrario per rimanere vigili e risvegliare in noi la capacità di guardare all’essenziale. È il tempo per la Chiesa di ritrovare il senso della missione che il Signore le ha affidato il giorno di Pasqua: essere segno e strumento della misericordia del Padre (cfr Gv 20,21-23)” (Omelia, 11 aprile 2015).
Il Giubileo, che apriamo questa sera, Carissimi fratelli e sorelle, sia dunque per tutti un tempo di discernimento personale e comunitario, che ci dà la possibilità di riprendere con slancio il cammino dell’evangelizzazione e della testimonianza cristiana, fatta di amore, di perdono e di accoglienza reciproca. Amen!