Riflessioni di metà quaresima
La conversione nel vissuto quotidiano. Come prepararsi alla confessione
Amici, siamo a metà Quaresima. E’ ora di convertirci. Ma che vuol dire conversione? Stando a un noto precetto della Chiesa, almeno una volta l’anno dobbiamo confessarci. Ma quali sono oggi i veri peccati? Al prete non sappiamo più che dire, oppure ripetiamo quello che confessavamo da piccoli, bugie, disobbedienze e brutte parole.
In questi giorni mi ha fatto riflettere una pubblicazione di Umberto Galimberti su "I nuovi vizi capitali".
Oggi la morale è molto più permissiva di quella dei secoli scorsi e ognuno fa come si sente di fare con un relativismo in cui non c’è più alcun principio valido per tutti.
A questo punto ho avuto la fortuna di incontrare lo studio di Massimo Cacciari su "Le virtù antiche e quelle d’oggi". Il noto pensatore rileva che i nostri comportamenti si sono emancipati da una certa visione conformista. Essere virtuosi non consiste nel recitare orazioni e compiere devozioni. Per tanto tempo si è pensato che la perfezione cristiana significasse estraniarsi dalla famiglia, dai problemi del mondo, entrare in convento per immergersi nell’intimità di Dio.
Da quando Dio si è fatto uomo, garzone di un falegname, ha incontrato i pescatori, i pastori, la gente comune del suo tempo. Anche noi incontriamo Dio non solo in chiesa ma anche in ufficio, a scuola, a fare la spesa e le vere virtù ci portano a rispettare gli altri come persone, ad essere cittadini responsabili, ben educati, affidabili, pagine viventi della fiducia gioiosa del vangelo e della premura verso chi è nel bisogno. Non eroi solitari, i veri santi oggi non sono quelli che si distinguono facendo prediche e miracoli, ma vivono ed operano con bontà di cuore nella vita di ogni giorno. Dei buoni ad ogni costo che si ricordano degli altri solo per dare buoni consigli e fare fioretti, non ne se ne può più!
Il santo vero sa vedere il buon Dio nelle situazioni normali come Francesco che si lasciava sorprendere da "sorella acqua e da frate foco".
Non vi è mai capitato di restare lì, sorpresi davanti alla verità disarmante e piena di vita del dono ricevuto, di alcuni gesti semplici, quotidiani compiuti con amore: una camicia stirata con cura, una caffettiera sul fuoco prima di uscire nell’alba che tarda a rischiararsi, quella pratica noiosa finalmente completata negli uffici comunali, le ricevute delle ultime bollette trovate ordinate nel cassetto dei documenti da conservare. Niente di sensazionale ma in quella cura delle cose ordinarie così rassicurante, abbiamo sperimentato un’amorevolezza tonificante, e forse ci siamo sentiti visitati da un dono di luce.
Alle volte rischiamo di oltrepassare in fretta questi momenti lasciandoci riassorbire subito dal vortice delle cose; occorrerebbe invece fermarsi e prendere una boccata di silenzio. Fermarci in silenzio ci permette allora di entrare in un prezioso versante dell’esistenza, quello dell’epifania dell’amore. Un amore vestito di abiti feriali ma profumati di gioia pulita, essenziale. Perché lì il pane quotidiano dell’amore concreto e vivente si mescola come un condimento tanto ricercato: la gioia, non la gioia cercata o programmata a tavolino, anzi, se te lo chiedessero non sapresti neppure dire da dove venga, eppure ti riempie il cuore!
La gioia l’avevi tanto cercata nel divertimento, nel gioco nell’evasione distraente, ora viene visitarti a tua insaputa, nella semplicità dell’amore vissuto. La gioia nessuno può darla a se stesso. Non è frutto di volontà. Puoi decidere di divertirti ma non puoi comandare a te stesso di essere nella gioia. La gioia vera e durevole che Francesco chiamava vera e durevole letizia, è un frutto delicato che matura solo se alimentato in certi terreni.
Cresce nel compimento sereno di un amore semplice e pacificato che chiede la partecipazione di tutta la tua persona. L’amore semplice che procura, ma non a comando, la letizia. Si esprime con spoglia concretezza in ogni piega del quotidiano, con uno stile inconfondibile, realista negli obiettivi, incisivo nelle situazioni, cosciente del suo limite eppure indomito. Sa unire al suo essere schivo e nascosto, il più grande coraggio e affianca ai più grandi ideali la fedeltà degli umili e perseveranti piccoli passi quotidiani.
Senza la gratuità, il disinteresse e l’assenza di ogni ricompensa ricercata o, più o meno attesa, l’amore perderebbe la sua caratteristica più importante: quella di essere semplice. Una grande occasione per verificare il disinteresse ci è data dalle situazioni di difficoltà. E’ in occasione delle prove che possiamo riconoscere quanto grande sia la gratuità dell’amore. Il dolore, la sofferenza non vanno cercati intenzionalmente, ma sarebbe segno di debolezza temerli e evitarli.
L’accompagnarsi a chi è provato nei momenti di sofferenza, impreziosisce l’amore, liberandolo da ogni secondo fine, nascosto o manifesto, ingenuo o malizioso. Non sono sufficienti il lavoro e l’impegno a testimoniare la validità dell’amore, se lavorando e faticando, siamo sottilmente in cerca di riconoscimenti e vantaggi, e ci defiliamo invece nel momento della difficoltà, significa che non possediamo la gratuità dell’amore. Saggiata invece nell’assenza di ogni contraccambio sensibile. Non dobbiamo arretrare nel crogiuolo della sofferenza. Almeno condivisa, se non ancora vissuta in prima persona. Il nostro amore libera da ogni attesa di ricompensa il travaglio di questa maturazione sofferta e purificatrice. Semplificherà il nostro amore, facendo nascere in quell’amore semplice, concreto, profumato di vera e autenica letizia e quietamente risplendente di frutti di umile e autentica testimonianza.
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