L'Editoriale
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Una elezione, tante domande

Risolta la grande domanda del 2024: “Chi vincerà le elezioni presidenziali Usa?”, subito se ne è spalancata un’altra: “E adesso?”. E’ una domanda matrioska che, come le bambole, ne contiene tante altre. Il filo rosso che le lega è la sensazione sempre più forte della disgregazione: tra le nazioni, tra le persone all’interno delle stesse. 

Parole chiave: Usa (16), Nazionalismo (1), Elezioni (63), Democrazia (6)
Una elezione, tante domande

Risolta la grande domanda del 2024: “Chi vincerà le elezioni presidenziali Usa?”, subito se ne è spalancata un’altra: “E adesso?”. E’ una domanda matrioska che, come le bambole, ne contiene tante altre. Il filo rosso che le lega è la sensazione sempre più forte della disgregazione: tra le nazioni, tra le persone all’interno delle stesse. L’elezione di Trump, dopo le tante affermazioni forti con cui ha condito la sua – efficace - campagna elettorale, apre questioni e aspettative di novità.

La prima è: finirà davvero la guerra in Ucraina come il nuovo presidente Usa ha promesso in tempi brevi, già prima dell’insediamento (20 gennaio 2025)? E, data la sua simpatia per Putin – prontamente ricambiata -, a quali condizioni per l’Ucraina?

La seconda guarda al Medio oriente, altra area di conflitto: come si metteranno le cose ora che Netanyahu si sente forte della presenza di Trump come alleato incondizionato (in un comizio ha dichiarato che lo avrebbe lasciato “finire il lavoro”), mentre il predecessore Biden aveva cercato in tutti i modi di fermarlo? E fino a che punto Trump lascerà mani libere ad Israele, impegnato in una guerra totale contro Hamas e i suoi complici?

La terza riguarda l’Europa: Trump non riconosce l’Unione Europea come istituzione, tanto che preferisce relazionarsi con i singoli stati. E’ pure pronto a mettere l’America al centro delle sue scelte, lasciando agli europei l’onere di arrangiarsi. Se la prima applicazione pratica di questa politica rimanda alla questione della difesa militare - anche perché Trump non è un sostenitore della Nato -, la seconda si ripercuote sulle economie dei paesi che ora esportano molto in America, Italia compresa. Gli industriali hanno già manifestato timore riguardo il futuro: dato che Trump è un protezionista delle imprese americane, temono dazi pesanti sulle merci estere. Sapendo quanto sia vitale l’utile che viene dall’export verso l’America dei prodotti italiani – veneti e friulani compresi – non c’è da stare troppo sereni: le stime fatte annunciano perdite miliardarie.

La quarta: allargando lo sguardo, la questione mercati rimbalza fino alla Cina, verso i cui prodotti, durante la campagna elettorale, Trump ha inviato messaggi poco pacifici. Al momento Xi Jinping si è limitato a rispondere che nelle guerre commerciali non ci sono vincitori: frase rasserenante ma sibillina riguardo la non convenienza a muovergli contro. Resta inoltre, taciuta ma dietro l’angolo, la questione Taiwan: con gli Usa concentrati su se stessi la Cina potrebbe sentirsi le mani libere di realizzare le proprie mire.

La quinta: riguardare i migranti. Come la pensa Trump lo sanno tutti, dato che non ha risparmiato frasi scioccanti, definendoli spazzatura. Nulla di nuovo per chi ha memoria: nel suo primo mandato (2016-2020) si era addirittura parlato di gabbie per minori figli di migranti al confine con il Texas.

La sesta riguarda la politica ma ricade, nelle sue conseguenze, su tutti. Trump ha sempre tacciato di fake gli allarmi relativi al cambiamento climatico e, sostenitore del petrolio più che delle politiche green, non si impegnerà per l’ambiente. Se non lo farà l’America è facile immaginare che tanto meno lo faranno i giganti dell’industria energivora alla vecchia maniera come Cina e India. Ma nel 2024 il termometro del pianeta ha già superato la temperatura soglia del +1,5° di innalzamento. Molte parti del mondo hanno sperimentato più volte cosa questo significhi: dall’America con i suoi cicloni e tornado da migliaia di sfollati, alla Spagna, alla stessa Italia (dalla Liguria all’Emilia Romagna). Non c’è angolo di mondo che non si sia misurato con eventi estremi, intensi e ravvicinati: costosissimi per i danni arrecati e le vite umane perdute. Come non preoccuparsene?

La settima e ultima è un timore generale. Con la vittoria di Trump si afferma un certo modo di fare politica: quello dei poteri forti e dei singoli protagonisti più che dei movimenti e delle ideologie. Oggi l’uomo capitano piace al popolo, sia pure un uomo che si fregia di farne parte e al contempo di essere l’unico in grado di guidarlo. Da tempo si parla di democrazie in bilico, di autocrazie, di democrazia imperiale. Al di là della forma, però, ciò che dovrebbe rimanere fermo e irrinunciabile è il mantenimento di valori come la libertà dei popoli, la collaborazione tra gli stessi, il mutuo sostegno, che hanno dato – specie all’Europa - una settantina di anni di pace. I commentatori politici vedono il mondo sul crinale del cambiamento e annunciano che, durante i quattro anni di presidenza di Trump, molte cose politicamente cambieranno anche in Europa, specie in paesi al momento moderati come Francia, Spagna, Germania (già in crisi), mentre sono già cambiate altrove (Ungheria, Italia).

Tutte queste incognite, sia ben chiaro, non riguardano solo una persona in particolare, ma palesano la preoccupazione generale derivante da un certo modo di vedere le cose e agire, che desta sempre più consensi. Un modo che mette al primo posto il tornaconto personale e nazionale e va sfumando il senso di responsabilità verso quell’umanità cui tutti apparteniamo.

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