L'Editoriale
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Tu chiamale elezioni

Il 9 febbraio la commissione elettorale, esaminate le richieste pervenute, ha reso noto l’elenco dei candidati ammessi. Ne sono rimasti quattro: Vladimir Putin e tre attuali parlamentari di fatto non rivali dell’attuale presidente e, senza un’opposizione, più che di elezioni si dovrebbe parlare di plebiscito, preparato con un lungo cammino.

Parole chiave: Russia (38), Putin (17), Elezioni (63)
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Simonetta Venturin

Parafrasando il titolo di un romanzo di Gabriel Garcìa Marquez, si potrebbe dire che quella di Vladimir Putin alle elezioni del 15-17 marzo sarà la “Cronaca di una vittoria annunciata”. Storici e politologi stimano che l’80% dei voti andrà a suo favore, rendendolo per la quinta volta presidente della Russia. Perché è amato e stimato in patria? Perché ai rivali è stata fatta terra bruciata sulla strada delle candidature? Vere entrambe.

Il 9 febbraio la commissione elettorale, esaminate le richieste pervenute, ha reso noto l’elenco dei candidati ammessi. Ne sono rimasti quattro: Vladislav Davankov (Nuova gente il suo partito), Lonid SluckiJ (Partito liberale – democratico), Nikolaj Charitanov (Partito comunista) e Vladimir Putin (indipendente ma sostenuto dal suo partito Russia Unita e dal Fronte popolare panrusso). I primi sono tre parlamentari, di fatto non rivali dell’attuale presidente e, senza un’opposizione, più che di elezioni si dovrebbe parlare di plebiscito, preparato con un lungo cammino.

La candidatura di Putin alle elezioni 2024, avendo egli già vinto nel 2012 e nel 2018, sarebbe stata infatti impossibile secondo la legge russa (non è ammessa la terza candidatura consecutiva, tanto è vero che dopo le elezioni vinte del 2004 e 2008, Putin passò un turno come primo ministro, presidente il fedelissimo Medvedev). Ma le leggi si possono cambiare e così è stato: con un emendamento alla riforma costituzionale, nel 2020, il presidente Putin ha potuto azzerare le esperienze precedenti ed essere quindi ricandidabile per altre due tornate elettorali. In più, in precedenza, aveva esteso il tempo di governo da quattro a sei anni. Pertanto, se il 17 marzo sarà – come i più si aspettano - il vincitore, resterà presidente fino al 2030 e, se dovesse poi partecipare e vincere anche la tornata successiva, potrebbe essere presidente fino al 2036, anno del suo ottantaquattresimo compleanno.

Se il futuro è tutto da scrivere, è già certa la sorte di chi aveva fermamente criticato queste mosse, ovvero Alexei Navalnyn, che aveva subito denunciato l’evidente intenzione di Putin di farsi presidente a vita, o almeno fino al 2036, traguardo ambito per superare Stalin nella permanenza al potere (mentre resta arduo eguagliare i 43 anni di comando dello zar Pietro il Grande, anche perché - essendo Putin al timone dal 1999 -, dovrebbe mantenere il ruolo fino al 2042, quando sarebbe novantenne).

La quinta corsa alla presidenza non è comunque l’unica novità della chiamata al voto di metà marzo: c’è pure l’ampiezza dei territori. Essendo infatti la prima chiamata alle urne da che è iniziata quella che Putin chiama la “operazione speciale” in Ucraina, partecipano sia le due ex autoproclamate repubbliche di Doneck e Lugansk, annesse tramite un referendum - che la comunità internazionale considera illegale -, sia la penisola di Crimea, Cherson e Zaporija, figlie di analoghe annessioni. Sono zone dove non mancano russofoni e russofili, per gli altri i carri armati sotto casa saranno argomenti convincenti.

Tra i rifiutati spiccano tre nomi: quello di Navalnyn, prima incandidabile perché detenuto ed ora deceduto; quello della giornalista Yekaterina Duntsova, contraria alla guerra in Ucraina, estromessa per errori nei documenti presentati; infine quello di Boris Nadzezhdin, pacifista, pro Navalnyn e ugualmente contrario alla guerra in Ucraina, anche lui rifiutato dalla commissione elettorale per problemi inerenti alle firme presentate. Erano tre veri oppositori di Putin e dell’attuale sistema di governo, che – stando così le cose – è di fatto impossibile da sfidare.

Lo hanno ribadito a chiare lettere tre eurodeputati esponenti dell’opposizione russa presenti il 14 febbraio all’Eurocamera di Bruxelles. Natalia Arno, presidente di Free Russia è stata durissima: “Putin è arrivato al potere con le bombe in Cecenia e un quarto di secolo dopo continua a governare bombardando un paese sovrano e scatenando la più grande guerra in Europa dalla seconda guerra mondiale… Ha reso la Russia un regime corrotto e sanguinario con censura, propaganda, repressione e controllo dei media” e, riguardo le elezioni, ha detto: “Non serve la sfera di cristallo per predire quello che succederà: Putin vincerà queste elezioni, rafforzerà il suo potere e le considererà una conferma della sua guerra in Ucraina”. Sintonia di pensiero con Mariana Katzarova, relatrice speciale delle Nazioni unite: “I leader autocratici che vogliono rimanere in carica prima zittiscono la stampa e i media liberi, rendendoli strumenti di propaganda, poi la società civile e infine attaccano i paesi vicini. Anche i migliori dittatori del novecento lo hanno fatto”.

Uno spiraglio sul futuro e al contempo un campanello d’allarme lo ha tracciato l’eurodeputato Tomas Tobé (Ppe): “Una pace sostenibile in Europa – ha dichiarato – richiede la trasformazione della Russia in una democrazia. Serve una strategia per arrivarci”. E al momento, purtroppo, la strategia manca.

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