Aspettando che torni la colomba
Sono questi i giorni in cui si ricorda anche il sessantesimo anniversario della Pacem in terris (11 aprile 1963), scritta dal papa santo Giovanni XXIII. Un’enciclica che celebrò quello che, prima del 24 febbraio 2022, era stato il momento più critico del secondo dopoguerra, quando per la crisi di Cuba la minaccia nucleare si era fatta tanto reale da indurre il papa ad un estremo appello, allora fortunatamente accolto da Kennedy e da Kruscev.
La Pasqua, nelle stucchevoli cartoline d’un tempo, veniva rappresentata come una colomba con il ramoscello d’olivo tra il becco. Immagine proveniente dalla Genesi: Noè alla fine del diluvio la mandò fuori dall’arca per capire se le acque si fossero ritirate, se il pericolo fosse davvero passato. Lo fece due volte: la prima non andò a buon fine ma la seconda sì. Come vorremmo che così fosse anche per la guerra in corso e che, nonostante i tentavi finora falliti, una trattativa seria e convinta della necessità urgente della fine del conflitto potesse nuovamente far volare la colomba della pace sulla nostra Europa e non solo.
Sono questi i giorni in cui si ricorda anche il sessantesimo anniversario della Pacem in terris, scritta dal papa santo Giovanni XXIII. Un’enciclica che celebrò quello che, prima del 24 febbraio 2022, era stato il momento più critico del secondo dopoguerra, quando per la crisi di Cuba la minaccia nucleare si era fatta tanto reale da indurre il papa ad un estremo appello, allora fortunatamente accolto da Kennedy e da Kruscev. Le navi cariche di missili nucleari rientrarono e, salvati da una fine più che annunciata, gli uomini si sentirono spronati a quell’impegno permanente alla pace e alla fratellanza che l’enciclica suggeriva. Un testo così potente da essere definito da Giorgio La Pira il “manifesto del mondo nuovo”; un testo a cui lavorò anche il trevigiano mons. Pietro Pavan, rettore della Pontificia Università Lateranense, che il papa volle come consulente.
La Pacem in terris sostiene la necessità e l’urgenza di un cambio di passo, invita all’abbandono del modello di pace armata che nasce dall’equilibrio tra potenze in continua rincorsa agli armamenti, anche nucleari, ed espone gli uomini “all’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni sitante con una travolgenza inimmaginabile” (59). Il papa constatava che “giustizia, saggezza ed umanità domandano” che si ponga fine alla folle corsa e che si riducano “simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti” (auspicio concretizzato nel trattato di non proliferazione nucleare che Usa, Regno Unito e Unione Sovietica sottoscrissero il 1° luglio 1968 ma che la guerra in corso sembra aver reso vano col succedersi delle minacce russe).
Papa Giovanni definiva la pace: “un obiettivo reclamato dalla ragione… un obiettivo desideratissimo… un obiettivo della più alta utilità… l’anelito più profondo dell’intera famiglia umana” (62). Come dargli torto?
Certo il disegno da lui indicato necessita di uomini capaci di portarlo nel mondo, di dargli modi, metodi, parole e fatti, capaci di sostenerlo con una volontà instancabile che agli occhi dei più rischia d’apparire illusione e bonomìa. Ma non è raro che così si giudichino i profeti. Tanto è vero che anche papa Francesco, instancabile difensore della pace ad ogni angelus domenicale – Pasqua compresa -, nel Messaggio per la prossima Giornata delle comunicazioni sociali (domenica 21 maggio) ha voluto ribadire la necessità di simili uomini: “Abbiamo bisogno – scrive – di comunicatori disponibili a dialogare, coinvolti nel favorire un disarmo integrale e impegnati a smontare la psicosi bellica che si annida nei nostri cuori”. A quasi quattordici mesi di diluvio di armi e di morti, auguriamoci di vedere tornare a noi la colomba con il ramo d’olivo nel becco.
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