Atiq Rahimi: l'esule vive nell'altrove
Un autore difficile, per i temi che affronta nei suoi libri: Afghanistan, guerra, violenza, dolore. Un autore che lascia un segno importante nella città di Pordenone, come in chiunque lo abbia conosciuto.
Si definisce uno straniero ovunque, perché un esule vive sempre nella dimensione dell’altrove. Quando è in Francia si sente afghano, ma quanto torna in Afghanistan comprende che non lo è più. Uno dei meriti di Dedica edizione 2018 è quello di aver portato un autore che è stato un ragazzo in fuga dalla guerra, un profugo salito agli allori della letteratura, dal quale accettiamo il racconto visto dall’altra parte del mondo.SSi definisce uno straniero ovunque, perché un esule vive sempre nella dimensione dell’altrove. Quando è in Francia si sente afghano, ma quanto torna in Afghanistan comprende che non lo è più. Sabato 10 marzo, Atiq Rahimi si è concesso due volte alla città: in un incontro riservato alle domande della stampa e in un gremito teatro Verdi intervistato da Fabio Gambaro, direttore dell’Istituto di Cultura italiana a Parigi.
Ha detto di aver cominciato a scrivere per parlare del suo paese a sua figlia. La letteratura si fa per sè o per gli altri?
Devo dire che l’artista è molto egoista. Non esiste senza ego. Io parto da me, dal mio vissuto, dalla mia storia. Una storia che, certo, è condivisa da una parte di società, da altri individui e quindi scrivere è anche apertura agli altri, immersione nella società e nella storia. È uno scambio continuo. Scrivere mi ha permesso di conquistare una posizione nella società nel paese in cui vivo.
E ha preso posizione. Per esempio contro la guerra.
Ha incarcerato mio padre, ucciso mio fratello. Mia madre è andata negli Stati Uniti. Nessuno della mia famiglia vive dove sono nato. La guerra mi ha portato prima in India, poi in fuga attraverso il Pakistan e infine in Francia. Ha devastato il mio paese. Mi ha reso esule per sempre, perché l’Afghanistan che io cerco e ricordo non esiste più. Restano Terra e Cenere, che è anche il titolo del mio primo libro. Un paese di favole e poesia è stato brutalizzato da russi, talebani, guerre civili, odio.
In guerra da oltre trent’anni e oggi?
Oggi l’Afghanistan non ha che due forze e due speranze: le donne, che combattono per essere inserite nella società afghana, e la gioventù, ragazzi e ragazze che hanno coscienza del loro paese e si battono perché l’Afghanistan faccia parte del mondo. Oggi l’Afghanistan non esiste né politicamente né economicamente. Oggi è solo un racconto di guerra, un campo di battaglia. Due sono le guerre tra le quali è preso: da una parte Iran e Arabia Saudita, dall’altra India e Pakistan. Come possono i ragazzi non desiderare un altrove? Io sono lì spesso, faccio corsi di scrittura e di cinema per accendere lì i loro sogni. Ma cos’è in mezzo a tanta devastazione?
I profughi: come vede la situazione lei che lo è stato?
Quando io sono giunto in Francia erano altri tempi. Gli afghani erano accolti come principi. Poi le cose sono andate cambiando molto. Così, quando con Pietra di pazienza ho vinto il premio Goncourt, non ho intavolato una conferenza stampa in un albergo, ma ho portato i giornalisti in un posto di Parigi dove i ragazzi profughi vivono per strada molto al di sotto della dignità. Il giorno dopo non hanno raccontato solo del mio premio ma della loro situazione. Vengono da luoghi dove la vita è misera e ha in sé poco valore. Dove tutto è distrutto. Non hanno luoghi dove stare da ragazzi. Hanno solo tv e cellulare. Dal cellulare vedono il resto del mondo. L’Occidente diviene il sogno della gioventù. Come non capirli? Non sarà facile fermarli.
I Paesi, l’Europa come si stanno comportando? Si dice che la capacità di accoglienza non è illimitata.
C’è L’Europa certo. Ma c’è anche una Arabia Saudita che con le sue risorse non accoglie i siriani, altro popolo che sta soffrendo. Mi piace dunque rispondere con un aneddoto, che parte da una storia vera.
Quando nel VII secolo d.c. i seguaci di Maometto invasero la Persia gli zoroastriani si rifugiarono in India e chiesero di essere accolti. Il Gran Maraja si fece portare una scodella colma di latte fino all’orlo e disse loro: questa è l’India. Basta una goccia per farla traboccare. Ma il capo degli zoroastriani tolse dello zucchero dalla tasca, lo cosparse piano piano sulla superficie del latte e questo non tracimò. Lo zucchero era come i nuovi arrivati: si sarebbero fusi non sommati.
È una poesia. Le ne scriveva da ragazzo. Non più?
Il persiano era la mia lingua e anche quella della poesia. Non è stato facile imparare il francese bene. Bene quanto basta per scrivere. I romanzi li scrivo prima in persiano, poi li traduco in francese. Per questo appena arrivato mi sono dato alle immagini: ho studiato da cineasta, ho fatto pubblicità, documentari, film. La parola è stata una conquista. Oggi mi dedico alla calligrafia e alla callimorfia. La parola è importante per me.
Parola che le donne in Aghanistan non hanno.
Fino a che non c’è libertà di parola, non c’è libertà, né piena coscienza di sé. Io dico che il motto dell’Occidente è "essere o non essere", quello dell’Oriente è "dire o non dire". Fino a che prevale il tacere, la paura di parlare apertamente, fino a che non ci sarà libertà di espressione sarà difficile migliorare le cose.
Lei è molto legato al tema della verità e della responsabilità.
Quando sono tornato in Afghanistan, nel 2002, vedevo i signori della guerra passare per strada con auto sfarzose. Hanno ucciso e massacrato centinaia di persone, ma erano tornati come se niente fosse. Mi chiedevo: come è possibile questo? Ho cominciato a indagare sul senso della colpa, ne è nato il libro "Maledetto Dostoeskij". Sono giunto a questa conclusione: tutto nasce dal fatto che uno che nasce musulmano non ha il peccato originale. Mi sono chiesto: allora perché siamo su questa terra? Il cristiano risponde: per la redenzione. Il musulmano: per preservare l’integrità, la purezza. Non ha il senso di colpa in sè, il male gli giunge sempre da fuori. L’altro è il portatore del male: è l’infedele che porta il peccato; è la donna che lo provoca con la sua bellezza e allora lui la copre completamente con il velo.
Simonetta Venturin
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