L'Editoriale
Niente Natale a Betlemme
Fra poco più di venti giorni è Natale: da noi le vetrine luccicano sfavillanti non diversamente dagli anni scorsi, le pubblicità offrono panettoni e regali, le cucine televisive sfornano menù sopraffini per palati sazi. Ma nei luoghi della Natività, in quella terra che è Santa di nome e martire di fatto, dopo una tregua nata con la data di scadenza, solo per permettere uno scambio di ostaggi, la ripresa del conflitto che infuria dopo il sette ottobre è una promessa più che credibile (Foto: Afp / Sir)
Fra poco più di venti giorni è Natale: da noi le vetrine luccicano sfavillanti non diversamente dagli anni scorsi, le pubblicità offrono panettoni e regali, le cucine televisive sfornano menù sopraffini per palati sazi. Ma nei luoghi della Natività, in quella terra che è Santa di nome e martire di fatto, dopo una tregua nata con la data di scadenza, solo per permettere uno scambio di ostaggi, la ripresa del conflitto che infuria dopo il sette ottobre è una promessa più che credibile.
Incontrando nei giorni scorsi a Roma i giornalisti dei settimanali cattolici riuniti in Assemblea, il Vicario della Terra Santa, padre Ibrahim Faltas, è stato molto esplicito: “A Betlemme non ci sarà Natale quest’anno” se non nelle celebrazioni presiedute dal Patriarca dei Latini, Card. Pierbattista Pizzaballa, nella Basilica della Natività, alla quale però pochi potranno essere presenti.
Padre Ibrahim sa quel che dice: è in Terra Santa da 35 anni, è stato parroco a Gerusalemme, è direttore delle scuole di Terra Santa, durante la seconda Intifada è stato uno dei quaranta monaci presi in ostaggio da parte di Hamas e gruppi Jihadisti nell’occupazione della Basilica della Natività di Betlemme (2 aprile, 10 maggio 2002), riuscendo a mediare fino alla risoluzione. Quasi due mesi fa ha vissuto il primo giorno degli attacchi di Hamas a Israele: era a Gerusalemme con i ragazzi della sua scuola e “mai avevamo visto passare tanti razzi – ha dichiarato -. Da allora tutto è cambiato: prima palestinesi e israeliani lavoravano insieme, ora si guardano con sospetto, non si salutano più. Gerusalemme la sera è deserta e si ha paura di parlare per strada in arabo: anche io che porto il saio”. Dall’altra parte non si sta meglio: ha raccontato la resistenza di suor Nabila Saleh che, con altre religiose, nella parrocchia della Sacra Famiglia in Gaza dà rifugio a settecento palestinesi cristiani: “Senza strutture, camere, cucine, servizi per tutti. Senza acqua ed energia. In più, uscendo dopo cinquanta giorni grazie alla tregua, quasi tutti hanno scoperto di aver perso ogni cosa, trovando al di fuori solo macerie”.
C’è da chiedersi quale senso dare a questa attesa dell’Atteso se il mondo va a fuoco, se il fratello soffre, uccide ed è ucciso; se questo mondo lacerato e ferito, attendendo il Bambino, Signore della pace, calpesta pace e bambini dall’Ucraina alla Terra Santa, all’Africa. Un Bambino che scelse di nascere in una terra su cui per l’ennesima volta scorre il sangue, dove la luce della stella si confonde con le tracce dei missili e dove il “non c’era posto per loro” è un’accusa reciproca tra due popoli in guerra.
Uomo di dialogo e di accordi, padre Faltas è stato ricevuto nei giorni scorsi da papa Francesco: la pace è invocata ma non nasce da sola, ha bisogno di uomini capaci di aprire strade nuove. Nel frattempo, le persone muoiono: da una parte le oltre quindicimila vittime di Gaza (per il 75% da mamme e bambini), dall’altra gli israeliani, sconvolti come mai prima dalla ferocia dell’attacco subito.
Tante le domande senza risposta, ma uno solo è stato l’appello rivolto a tutti da padre Ibrahim: pregare perché la guerra non riprenda per altri due mesi come annunciato da Netanyahu. E papa Francesco all’angelus di domenica 26 novembre – con la voce di mons. Braida perché raffreddato – ha ribadito: “La preghiera è la forza di pace che infrange la spirale dell’odio, spezza il circolo della vendetta, apre vie insperate di riconciliazione”.
Per questo, proprio perché la guerra degli uomini mette a lutto il mondo, abbiamo più che mai bisogno del Natale e di questo tempo che lo precede a cui dare un senso – vero, profondo, solidale e fraterno – rispondendo all’appello rivoltoci da chi è venuto dalla guerra. Sia la preghiera per la pace il dono che in questo Avvento facciamo a chi l’ha perduta. Non è una richiesta esorbitante: invocare la pace è il dono più bello che possiamo fare ad essi e a noi stessi.