L'Editoriale
Nel nome della pace
L’uomo ha rialzato le armi contro l’uomo, innescando un vortice di violenza che tante persone hanno subito manifestato di non volere. Sono espressione della gente comune: quella che lavora, che torna la sera in famiglia, che cresce figli e accompagna gli ultimi giorni dei propri cari. Abbiamo visto opporsi al male della guerra cori che, in lingue diverse e da paesi vicini e anche lontani, hanno pronunciato la stessa parola: pace. E’ un segno di speranza molto forte.
Cari fratelli e sorelle
mentre nei cieli rombavano gli aerei e l’aria si riempiva degli scoppi delle artiglierie, abbiamo compreso in pochi istanti il valore smisurato della pace. Ne avevamo forse perso il sapore nella fortuna capitataci di averla conosciuta a lungo.
Dalla metà del secolo scorso il nostro Occidente, passato due volte attraverso le atrocità delle guerre mondiali, ha vissuto la pace di vite senza armi e senza bombe, se si esclude il pur grave conflitto nei Balcani. Ci siamo adagiati in questa pace pur imperfetta, perché intrisa di diverse e divisive ideologie, fedi, condizioni di vita. Ci eravamo forse illusi di aver invertito per sempre la rotta. Per questo siamo rimasti increduli e addolorati dalle parole e dalle immagini giunte da Russia e Ucraina, che tutto hanno fatto precipitare.
L’uomo ha rialzato le armi contro l’uomo, innescando un vortice di violenza che tante persone hanno subito manifestato di non volere. Sono espressione della gente comune: quella che lavora, che torna la sera in famiglia, che cresce figli e accompagna gli ultimi giorni dei propri cari.
Abbiamo visto opporsi al male della guerra cori che, in lingue diverse e da paesi vicini e anche lontani, hanno pronunciato la stessa parola: pace. E’ un segno di speranza molto forte.
Dobbiamo pronunciarla in molti affinché forte si alzi sopra il frastuono degli aerei, dei missili, dei carri armati e dei fucili; affinché consoli chi ora è nel pianto. C’è in tutto questo movimento un seme buono di fratellanza e di umana vicinanza a chi tanto sta soffrendo.
Ugualmente, in molte chiese si sono levate e si intrecciano suppliche al Dio della pace, perché si fermi l’uomo che uccide l’uomo. C’è fede e c’è speranza in ogni affidamento.
Resta salda la convinzione che l’uomo è fatto per la pace. Papa Francesco ci ha ricordato più volte l’importanza di farci “artigiani della pace”. Lo ha fatto anche il primo gennaio di quest’anno, Giorno per la pace, spiegando che se l’architettura della pace spetta a nazioni e istituzioni, spetta invece a noi tutti l’artigianato della pace. Parole che, fino a pochi giorni fa, avevano il sapore dei buoni propositi d’inizio anno, ma che di colpo sono diventate l’obiettivo più alto e urgente.
Mi tornano alla mente i moniti di altri papi.
“Tutto è perduto con la guerra” aveva detto papa Pio XII il 24 agosto del 1939, 83 anni fa, quando il mondo era alla vigilia della seconda guerra mondiale. Non fu ascoltato e gli uomini conobbero anni di morti e distruzioni prima che la colomba della pace potesse, nel 1945, tornare a volare.
“Mai più la guerra” aveva implorato un già sofferente Giovanni Paolo II il 16 marzo 2003, diciannove anni fa, alla vigilia della seconda guerra in Iraq. Non fu ascoltato e la guerra scoppiò quattro giorni dopo per fermarsi solo nel 2011.
Papa Francesco la settimana scorsa, all’udienza di mercoledì 23 febbraio, ha lanciato per il 2 marzo una giornata di digiuno e preghiera per la pace. Poche ore dopo l’attacco russo all’Ucraina era realtà. Al suo appello aderiamo ora noi tutti, convintamente.
Sono giorni di grande trepidazione: mentre attendiamo la fine del conflitto, confidando in accordi tanto difficili, l’angoscia regna anche nei nostri cuori.
Ci conforti la preghiera che, uniti, pronunciamo implorando la pace. Una preghiera solidale che ci veda fratelli e sorelle chiedere ad una sola voce: pace. Perché tanti sono i signori della guerra, ma Uno è il Signore della pace: che la supplica a lui sia sincera, accorata, unanime. Pace.