Domenica 18 ottobre, commento al vangelo di don Renato De Zan

Gesù ritiene corretto pagare le tasse a Cesare, ma ciò non significa che l’uomo non possa più dare a Dio qualche cosa d’altro, molto più importante delle tasse: il dono a Dio di tutto il mondo interiore significa per riconoscerne il primato. Da qui la risposta: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”

18.10.2020. 29° domenica del T.O.

 

Mt 22,15-21

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

 

Allo Stato le tasse, a Dio il mondo interiore

 

Teologia liturgica

“Io sono il Signore e non c’è alcun altro” (Is 45,5.6): il Deutero-Isaia ripete quest’affermazione in pochi versetti (prima lettura Is 45, 1.4-6). Il profeta doveva far capire ai suoi correligionari che Dio è il padrone della storia. Si era servito di Nabucodonosor, il babilonese, per castigare il suo popolo e si serve di Ciro, il persiano, per liberarlo. Il Signore è il sovrano in assoluto e può fare ciò che egli ritiene opportuno, anche scegliere un pagano, Ciro, come strumento di salvezza per il suo popolo. Se Dio, dunque, è unico e all’infuori di lui “non c’è dio” (Is 45,5), è chiaro che la vera obbedienza dell’uomo è dovuta a lui solo. Questo concetto è fondamentale per comprendere il vangelo di oggi. Ai tempi di Gesù il nazionalismo ebraico aveva esasperato il senso di appartenenza: Dio era il re del popolo ebraico. Pagare le tasse all’imperatore significava riconoscere un re diverso da Dio. Al tempo di Gesù il pagamento delle tasse era al centro delle discussioni sia morali sia giuridiche sia politiche tra le varie fazioni ebraiche. La malizia dei farisei e degli erodiani consiste in questo: se Gesù diceva di pagare le tasse avrebbe urtato terribilmente i nazionalisti (farisei), diversamente, se diceva di non pagarle, avrebbe urtato terribilmente i filo-romani (erodiani). Gesù risponde, rifacendosi alla preghiera quotidiana dello Shemàch (Dt 6,4-5) “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”. Pagare le tasse non significa riconoscere il primato all’imperatore, ma donare il cuore, l’anima e le forze a Dio significa riconoscere il primato di Dio. Gesù, dunque, ritiene corretto pagare le tasse a Cesare, ma ciò non significa che l’uomo non possa più dare a Dio qualche cosa d’altro, molto più importante delle tasse: il dono a Dio di tutto il mondo interiore significa per riconoscerne il primato. Da qui nasce la risposta di Gesù: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (cf il vangelo, Mt 22,15-21). Da Gesù Paolo deduce il comportamento da suggerire ai cristiani di Roma: “Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto” (Rom 13,7)”. Un discepolo di Paolo pochi decenni dopo scriveva: “Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità” (1Tm 2,1-2). La Colletta propria, nella complementare diretta della petizione traduce questi concetti in preghiera: “Fa’ che nessuno di noi abusi del suo potere, ma ogni autorità serva al bene di tutti, secondo lo Spirto e la parola del tuo Figlio, e l’umanità intera riconosca te solo come unico Dio”

 

Dimensione letteraria

Al testo evangelico originale, Mt 22,15-22, la Liturgia aggiunge l’incipit “in quel tempo”, ma anche toglie il v. 22 (“A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono”). La scelta di togliere l’ultimo versetto ha diverse spiegazioni. La prima riguarda lo scontro tra Gesù e i farisei. Questo episodio non chiude lo scontro, mentre il v. 22 sembra alludere a un abbandono da parte dei farisei. Un secondo motivo è letterario: questo taglio fa concludere la pericope con il detto sapienziale di Gesù che in questo modo acquista un significato particolare. Diventa, cioè, una specie di principio comportamentale per i discepoli di Gesù: le tasse allo stato e il proprio mondo interiore a Dio.

 

Riflessione biblico-liturgica

a. I farisei avevano dei principi che non potevano accordarsi con i principi degli erodiani. I primi erano a favore della libertà dal dominio romano, i secondi erano a favore della collaborazione con i dominatori. Tutt’e due le fazioni erano però d’accordo nell’essere contro Gesù.

b. Il “denarion” mostrato a Gesù aveva inciso sul recto “Tiberio Cesare Augusto, figlio del divo Augusto”, mentre nel verso, “Pontefice Massimo”. Per Gesù è stato facile esprimere il concetto di restituzione a Cesare ciò che è di Cesare.

c. La risposta di Gesù è stata dura per gli zeloti e i farisei (date a Cesare…), ma anche per gli erodiani e i pubblicani (date a Dio…). è stata dura anche per i discepoli: il secondo Simone era zelota (Lc 6,15), Matteo, pubblicano (Mt 9,9) e le donne, anche se non tutte, provenivano dalle classi abbienti degli erodiani (cfr Lc 8,1-2). Va ricordato anche che buona parte della prima comunità proveniva dalle file del fariseismo (At 15,5).