Marcello Kalowski a Pordenone per ricordare la Shoa

Il padre Abram sopravvisse ad Auschwitz dove perse parte della famiglia. Il figlio ne ha raccolto la storia in un libro. Lunedì 28 a Pordenone, ore 10.30 sala consigliare ex provincia, ne darà testimonianza

  Marcello Kalowski sarà a Pordenone lunedì 28 gennaio. Dopo le cerimonie di rito (9.30 deposizione corona al Monumento del Deportato in piazzetta dei Maestri del lavoro; ore 10 deposizione corona alla targa della Giornata della memoria nella ex sede della Provincia in corso Garibaldi e 10.15 consegna medaglie d’onore), in sala consiliare sempre della ex Provincia alle ore 10.30, Kalowski terrà una conferenza su: “La Shoa, la testimonianza, la memoria. Il silenzio dei sopravvissuti”. Un titolo che centra in pieno la sua vicenda personale e familiare. Lo stesso, infatti, è l’autore del volume: “Il silenzio di Abram. Mio padre dopo Auschwitz”.La vicenda: Abram è un ragazzo polacco, figlio di una famiglia ebrea agiata (avevano una fabbrica) che vive a Lodz. A 14 anni viene prima rinchiuso nel ghetto, poi spedito ad Auschwitz. Perde la madre (passata direttamente dal treno piombato alla camera a gas) il padre e l’amatissimo fratello Josef, un secondo padre per lui. Abram riesce a sopravvivere. Ha anche altri due fratelli, passati a combattere con i russi, ne ritroverà uno alla fine dei suoi anni. Liberato dal campo, i camion della Brigata ebraica lo portano a Nonantola, dove venivano radunati coloro che partivano per la Palestina. Ma Abram era malato, aveva la tbc e non era in grado di affrontare il viaggio. Viene mandato a Grottaferrata, dove l’American Joint dava assistenza agli ebrei dell’Europa centrale sopravvissuti all’olocausto. Fu curato, gli fu insegnato un mestiere (odontotecnico). Lì conobbe la ragazza che diventò sua moglie, si sposarono, nacquero due figli. Marcello, che ora ne racconta la storia, è uno di questi. Dopo qualche anno la famiglia si trasferì a Roma.Il cambiamento. Abram, scomparso nel 1999, era una persona estroversa, allegra, amante della musica. Innamorato di Israele, cresceva i figli trasmettendo questo legame. Poi, quando il figlio Marcello ha esattamente 14 anni (l’età in cui lui piombò nell’incubo della persecuzione, del ghetto e del campo di sterminio), sprofondò in una depressione da cui non uscì mai del tutto, chiudendosi in un mondo lontano e silenzioso, che il figlio descrive come: “Lo sbocco naturale, quasi un rifugio per un’anima devastata al di là di ogni immaginazione”. Perché “attraversato da una ferita profonda e insanabile che non smette di sanguinare”.Ne parliamo direttamente con Marcello Kalowski.Suo padre non le ha mai raccontato niente?Mai un racconto coerente. Solo framemmenti, piccole storie. C’è un episodio che lui aveva la forza di raccontarmi ridendo, come se fosse comico: appena scesi dal treno ad Auschwitz, lui e il fratello furono inviati alle baracche, mentre la mamma fu subito gassata. Lì un ausiliario lituano lo prese di mira: da quella prima volta, e per ogni giorno che visse al campo, se lo incontrava gli puntava la pistola contro e sparava. E così mio padre, oltre a imparare in fretta come comportarsi, doveva stare attento e scansare le pallottole, vere. Ne era terrorizzato, ma lo raccontava a me bambino come se fosse un film di Chaplin.Lei definisce il suo ruolo “farsi ponte” tra quel passato taciuto e l’oggi.Sì, tra quel che è stato alle generazioni di oggi. Infatti ogni anno, da gennaio a primavera, giro per le scuole dello Stivale come testimone di Abram e della storia di tanti come lui.Ha scritto che Shlomo Venezia frequentava la vostra casa?Sì, con mio padre si erano frequentati per anni, perché abitavano sullo stesso pianerottolo e io giocavo con suo figlio Mario, oggi Presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma.Non li ha mai sentiti parlare di quanto era loro capitato? Condividere un ricordo?No, o almeno io non ho intercettato niente. Anche il percorso di Shlomo è stato lacerante e ha deciso tardi di donarci la sua tremenda testimonianza del Sonderkommando (il libro è uscito solo nel 2007 e lui è morto nel 2012).Simonetta Venturin