L'Editoriale
Strappare anche la madre lingua
Due notizie sono giunte quasi insieme e pare che una serva a ribadire la gravità dell’altra: il rapimento e la russificazione di migliaia di bambini ucraini da parte dei russi e la morte di Boris Pahor, il triestino di lingua slovena sopravvissuto ai lager, spentosi a 108 anni. Sono accomunate dalla violenza della guerra ma anche da quella di voler sopprimere la lingua madre.
Due notizie sono giunte quasi insieme e pare che una serva a ribadire la gravità dell’altra: il rapimento e la russificazione di migliaia di bambini ucraini da parte dei russi e la morte di Boris Pahor, il triestino di lingua slovena sopravvissuto ai lager, spentosi a 108 anni.
La voce sui bambini rapiti non è nuova, ma la si era fino a qui riportata con la prudenza del condizionale, compreso quando a denunciare i fatti era stato il presidente ucraino Zelensky. Adesso, invece, un coro di voci si somma ai suoi primi allarmi: alcuni sindaci (in primis da Mariupol), il Commissario per i diritti umani a Kiev (Ludmyla Denisova), il consigliere della rappresentanza ucraina all’Onu (Sergiy Dvornyk). Sono resoconti concordanti: dall’inizio della guerra sarebbero spariti 230mila bambini, di questo oltre 120mila sarebbero stati portati in Russia. Ludmyla Denisova parla di bambini strappati alle famiglie, a volte orfani di un genitore situazione che, per i russi, equivale allo stato di adottabilità. Non solo: il 30 maggio Putin ha firmato un editto che consente “procedure rapide per trasformare in cittadini russi migliaia di minori ucraini che la guerra ha reso orfani ma anche solo separato dai genitori. Non importano che siano profughi in Russia: sono russificabili con effetto immediato i bambini residenti nelle auto proclamate repubbliche putiniane di Donetsk e Lugansk, ma anche – elemento nuovo – in quelle di Zaporizhzhia e Kherson al sud” (lo scrive Federico Fubini sul Corriere della sera del 31 maggio).
Il fenomeno si è accentuato nelle ultime settimane, dopo la caduta di Mariupol da dove centinaia di bambini sono stati trasferiti a migliaia di chilometri, verso Vladivostok, città dell’estremo oriente russo, vicina a Cina e Nord Corea. E anche per gli adulti rimasti la propaganda va in onda 24 ore su 24 da una dozzina di maxi schermi installati nella città delle macerie.
Se questo vale per i bambini delle città cadute, altro sta accadendo a quelli che si trovano ora a vivere nel territorio occupato dai russi. Per essi non si parla di rapimenti ma di russificazione in atto, tesa a far dimenticare l’ucraino, come lingua e come cultura in senso più generale. Si parte dalla scuola, prorogata fino a settembre senza vacanze estive non per recuperare i mesi perduti con la guerra ma per attuare immediatamente un progetto di “de-ucrainizzazione”: adesso studieranno lingua e storia della letteratura russa (come descrive l’Avvenire del 27 maggio, notizie rimbalzate su vari media nazionali).
Ed è qui che si innesta la tragica parabola di vita di Boris Pahor. Nato in una Trieste asburgica nel 1913 di famiglia slovena e parlante sloveno. A sette anni – e scuola appena iniziata – la storia segnò il passaggio sotto l’Italia (trattato di Rapallo del 12 novembre 1920), che in quelle terre orientali si tradusse in un piano di italianizzazione forzata nei confronti delle minoranze slovene e croate, che gli Asburgo avevano invece lasciato esprimere liberamente con giornali, scuole, circoli culturali propri. Furono messe in atto misure come l’italianizzazione dei cognomi, dei nomi e dei toponimi, il divieto di parlare sloveno e croato, la chiusura dei giornali (13), la soppressione dei circoli culturali e delle scuole (circa 500 per 80mila studenti).
Boris convisse tutta la sua lunga e feconda esistenza contro la violenza di quella lingua imposta e il divieto di usare la sua lingua madre. Bene lo descrisse in due libri: Il rogo del porto e ancor più in Qui è proibito parlare dove in due episodi sintetizza il suo emblematico e drammatico vissuto: in quello della bambina Julka che, colpevole di essersi rivolta a un compagno di classe in sloveno – lingua parlata fino al giorno prima – viene appesa per le trecce all’attaccapanni davanti ai suoi compagni perché imparino a non infrangere le nuove regole e in quello, non meno tragico, del maestro tubercolotico Sottosanti capace di sputare in bocca ai piccoli allievi sloveni che violavano il medesimo divieto.
Se anche un dubbio restasse riguardo alle odierne denunce di russificazione, la storia ci ricordi e ci insegni che è accaduto e che può di nuovo accadere.