Non chiudere la mano

Nella Giornata dei poveri l'annuncio dell'ergastolo dato a colui che il 15 settembre uccise "il prete dei poveri" don Roberto Molgesini, ricordato da papa Francesco, insignito in memoria dal presidente della Repubblica Mattarella

Non chiudere

La mano

Simonetta Venturin

Mentre torna la Giornata dei poveri, nata da Papa Francesco cinque anni fa, la Corte di Assise di Como ha emesso la condanna all’ergastolo per Ridha Mahmoudi, che il 15 settembre 2020 ha ucciso don Roberto Malgesini, noto come “il prete dei poveri”. Classe 1969, ragioniere, il giovane Roberto aveva trovato subito lavoro in banca, ma dopo tre anni si era licenziato per entrare in Seminario: aveva capito su quale strada camminare col sorriso sulle orme del Maestro.

Figura magra, volto sereno e mani operose, don Roberto viveva il suo sacerdozio come dono di sé agli ultimi, in particolare a quegli invisibili che a Como alloggiavano in centro, sotto i portici o negli androni dei palazzi. Andava a cercare i non guardati, gli scacciati, i non graditi di ogni nazionalità, diversi per storie e provenienze, accomunati dalla medesima indesiderabilità a tal punto che – tutto il mondo è paese – l’amministrazione aveva tolto le panchine ed emesso ordinanze contro l’accattonaggio e la distribuzione di viveri ai clochard. Lui non aveva cambiato per questo la sua missione e ogni mattina, con la vecchia panda grigia, portava la colazione ai senzatetto.

Sveglia alle cinque, preghiera, preparazione di thermos con caffè e te, le casse con pane e dolci invenduti che la sera precedente aveva ritirato da panettieri e pasticceri. Ogni giorno cominciava col suo giro: a uno allungava un bicchiere caldo e magari anche un paio di scarpe, a un altro pane e latte e una coperta pulita o una maglietta nuova. Attento ai bisogni taciuti, come quando aveva portato una borsetta alla scontrosa barbona che chiamavano Sofia in omaggio alla Loren.

Eppure anche don Roberto, più amato dagli ultimi che compreso da chi ha vite normali come le nostre, è stato ucciso. A colpirlo una persona a lui ben nota e più volte aiutata: il marocchino Ridha Mahmoudi, cinquantasettenne, che lo ha colpito con venticinque fendenti. Descritto come uno strano e difficile, il reo confesso viveva di lavori saltuari e delle difficoltà comuni a molti stranieri in Italia. Al processo la difesa ha chiesto una perizia psichiatrica e invocato l’assoluzione per incapacità di intendere e di volere, ma l’istanza è stata rigettata dalla corte che ha accolto la tesi dell’accusa: omicidio volontario premeditato. Il coltello era stato acquistato già due mesi prima. Il movente: Ridha riteneva che don Roberto non lo stesse aiutando abbastanza.

Nel suo vivere schivo e lontano dai riflettori, questo sacerdote ha lasciato il segno: nella sua comunità, nelle persone che incontrava, bisognose di aiuto o meno, nei giovani che spesso lo accompagnavano. La sua storia è stata raccontata in un libro e – per dirla con le parole del vescovo Oscar Cantoni che ne firma a postfazione -: “Don Roberto certamente non ha mai e poi mai immaginato che qualcuno avrebbe potuto scrivere un libro su di lui” (Eugenio Arcidiacono, “Asciugava le lacrime con mitezza. La vita di don Roberto Molgesini”, San Palo editore). Non basta: la sua vita – non la sua morte – ha camminato fino a Roma, dal Vaticano al Quirinale.

Alla messa di suffragio in cattedrale a Como papa Francesco ha inviato il suo elemosiniere, card. Konrad Krajewski, che ha detto: “Don Roberto è morto, quindi vive. L’amore non muore mai”. Il papa stesso lo ha citato tre volte. La prima nella catechesi del giorno dopo l’omicidio, nella quale lo ha definito “un martire della carità”. La seconda un mese dopo, quando ha invitato i genitori di don Roberto per l’udienza in aula Paolo VI: incontrandoli ha pianto e di quelle lacrime condivise ha raccontato nell’udienza successiva. La terza nell’omelia per la Giornata dei poveri del 2020 (15 novembre, due mesi esatti dall’omicidio), in cui parlando “dei servi fedeli di Dio che non fanno parlare di sé, ma vivono servendo” ha ricordato: “Penso a don Roberto Molgesini. Questo prete non faceva teorie; semplicemente vedeva Gesù nel povero e il senso della vita nel servire”.

La sua storia non è sfuggita nemmeno al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che solo tre settimane dopo l’uccisione, gli ha conferito in memoria la medaglia d’oro al merito civile per il “luminoso esempio di uno straordinario messaggio di fratellanza e di un eccezionale impegno cristiano al servizio della Chiesa e della società civile, spinto fino all’estremo sacrificio”.

Ora se è vero – come titola il messaggio della Giornata dei poveri di quest’anno, domenica 14 novembre – che i poveri li abbiamo sempre con noi, è altrettanto vero che uno degli effetti della pandemia è stato quello di accrescerli. Lo confermano fonti diverse e attendibili: le Caritas italiane (che parlano di un +20%), l’Istat (sono in stato di povertà assoluta in Italia 2,2 milioni di famiglie) e l’Onu (nuova povertà nel mondo per cento milioni di lavoratori a causa del Covid). Oltre che doveroso è quindi anche urgente ricordarsi di chi sta peggio, di chi non ha o non ha abbastanza.

La famiglia di Molgesini, costituitasi parte civile al processo, ha chiesto un risarcimento simbolico di un euro: la vita non si paga e non si compra. Però si può donare, anche se è ardua impresa. Si può cominciare dai gesti di vicinanza: “Non chiudere la mano davanti a tuo fratello bisognoso” ammonisce papa Francesco nel suo messaggio, dove schiettamente ricorda come la povertà di qualcuno è spesso figlia dell’egoismo di qualcun altro più che del destino.

Al Rosario per don Roberto, il giorno prima del funerale, il suo Vescovo Oscar lo ha ricordato come “un prete felice”. Aiutando gli altri potremmo rischiare di esserlo un po’ anche noi.