Attualità
Il giornalista consuma le scarpe
Domenica 16 maggio: giornata delle Comunicazioni sociali. Il messaggio di papa Francesco punta alla sostanza della professione: vieni e vedi
Il giornalista si guarda dalle scarpe. Se sono impolverate, o infangate, ha fatto un buon lavoro. Meglio ancora se le suole sono consumate. Il messaggio di Papa Francesco per la Giornata delle comunicazioni sociali apre una breccia in un mondo stracarico di informazioni. Punta alla sostanza della professione con un richiamo al messaggio evangelico. “Vieni e vedi” (Gv 1, 43-46) è il metodo di racconto della notizia, quella accaduta e non quella costruita a tavolino. L’invito è per intensificare il giornalismo “di strada” e “di periferia”, che sta dove pulsa la vita, soprattutto quella più tormentata. Il mestiere si pratica sul campo, dove ci sono le persone, con l’obiettivo di cercare gli elementi di una storia; di ascoltare con impegno e umiltà i protagonisti (che non sono i giornalisti), cogliendo anche le sfumature e i significati nascosti; di verificare l’attendibilità di quanto viene sostenuto. E, invece, chi si muove più dal desk? Questo capita un po’ per pigrizia, un po’ perché le informazioni sono coperte dalle agenzie, e tanto a causa delle politiche editoriali esageratamente sparagnine, che stravolgono il lavoro. Se non tornano i conti, si tagliano sempre le risorse umane. Poi ci si accorge che manca il lievito del mestiere: l’inchiesta, il reportage, lo scoop. Per rimediare sui bilanci si vendono più gadget che notizie. Così, le scarpe restano pulite, ma l’informazione è sopraffatta dall’autoreferenzialità e dalle esigenze del “palazzo”.
Il giornalismo sta perdendo l’anima. La parte dell’approfondimento è spesso sacrificata: il tempo brucia rapidamente la notizia, almeno questa è la giustificazione. Non ci si sforza più di scrutare gli orizzonti lunghi per offrire riflessioni più durature. Tutto si svolge in un attimo. Ci si occupa in maniera ossessiva dell’albero che cade, perdendo di vista la foresta che cresce lentamente senza fare rumore. Questa logica ha maturato altri luoghi comuni, per esempio che sono le cattive notizie a determinare le vendite e l’audience. La convinzione ha ridotto sensibilmente la diffusione delle buone informazioni, che sono quelle che invece aiutano a costruire un tessuto sociale di speranza e di ottimismo. Il bene non fa notizia ma c’è. Basta osservare quanto sta accadendo in tempo di pandemia: numeri, bollettini e disgrazie, con un carico eccessivo di paura e di angoscia, stanno occupando spazi enormi a discapito delle idee e della progettualità per la ricostruzione. In questo modo si perdono di vista le energie necessarie alla creazione di fiducia. Più in generale si usa il contagocce nella pubblicazione delle storie di solidarietà, di volontariato e di aiuto al prossimo. Il lavoro silenzioso non paga, soccombe sotto il peso del rumore e delle urla del nulla. Altruismo e gratuità evidentemente non contano in una società impostata sul guadagno e sulla convenienza. Ciò che non è monetizzato non esiste. Eppure, il nostro Paese ha la fortuna di esprimere, nei momenti più difficili della vita collettiva, la profondità d’animo di numerose persone che dedicano il proprio tempo a sofferenze e povertà degli altri. Una maggior attenzione verso questo tipo di impegno farebbe capire che viviamo ancora in una società di sentimenti e non di soli interessi. Ma occorrerebbe sporcarsi le scarpe, se non proprio consumare le suole, per poter andare controcorrente.
Ci sono nuove sfide da raccogliere. Il giornalismo dovrebbe costituire la bussola in un mondo di notizie, per mettere insieme la complessità dell’approfondimento con la semplicità delle informazioni. Le tecnologie digitali aprono nuove finestre di comunicazione, perché sono strumenti straordinari. Ma le opportunità evidenziano dei rischi molto seri. Nella rete dei social c’è di tutto. L’informazione è finita dentro una bolla preconfezionata artificialmente, stritolata dagli algoritmi che decidono l’accesso, la pubblicazione, la selezione, le priorità e le verifiche. I like, i contatti e le visualizzazioni sono diventati le unità di misura del gradimento. Di conseguenza prevale la superficialità. Con l’algoritmo non si può ragionare, perché domina lui la scena. Ma non è un meccanismo umano. Si è creato pertanto un cortocircuito che amplifica a dismisura le fake news, le quali sono in grado di circolare liberamente senza controllo. Si gonfiano intensificando la semina di odio e di rancore. Siamo nell’anticamera di una sostituzione disumana: il robot al posto del giornalista, o comunque di qualsiasi altro comunicatore sensibile a deontologia e responsabilità. E di un deficit preoccupante di democrazia: i pochi padroni delle piattaforme decidono le regole degli accessi e delle censure. Chi può parlare e chi no.
Giuseppe Ragogna