L’Avvento oltre ai tempi bui di un virus, la speranza è solida se è di fede

“È indispensabile tenere insieme lucidità mentale, fratellanza tra di noi, animata da vero amore: sono doni che in questo Avvento dobbiamo chiedere a Dio”

Come parroco entro in contatto con tante persone, e come prete sto attento a quello che succede nelle anime.

Da un paio di mesi a questa parte sto assistendo al montare in molti di un sentimento di cupa rassegnazione. Non è solo la paura determinata dalla pandemia e dalla sua recrudescenza autunnale: la paura è un sentimento corretto quando prendiamo coscienza di un pericolo preciso, ed essa serve per attivarci o a schivarlo o a combatterlo. E per farlo abbiamo bisogno della speranza di riuscirci.

La cupa rassegnazione di cui parlo è tale perché è paura senza speranza, frutto di una delusione che toglie vigore, che fa sentire impotenti e svigorisce.

Le persone, e non sono davvero poche, che vengono inghiottite da questa specie di palude, vengono spinte in due direzioni, talvolta l’una, talvolta l’altra, talvolta entrambe mescolate insieme.

La prima è la depressione che paralizza il mondo interiore e porta chi ne è colpito a rannicchiarsi su di sé e a restringere l’orizzonte della sua attenzione alla propria grande sofferenza.

L’altra è l’aggressività, che spinge a comportarsi come se, in fin dei conti, la colpa sia degli “altri”, per cui si alza la voce, si diventa aggressivi, non si è disposti a star ad ascoltare, non si prova il desiderio di aiutare chi è in difficoltà. Entrambe sono una catastrofe per le relazioni.

Il tempo dell’Avvento, con il quale veniamo invitati a entrare in un nuovo ciclo della nostra vita di cristiani, è quanto mai attuale.

LE QUATTRO SETTIMANE Sono divise in due parti: la prima esprime la consapevolezza che c’è tanto male in questo mondo e spinge a chiedere a Dio liberazione, guarigione, aiuto a rialzarsi. La seconda guarda verso Gesù, il Figlio di Dio che è sorto come uomo in mezzo a noi, e ha stabilito con noi un legame indissolubile di solidarietà. In questo modo la Liturgia, che ci fa da guida, non appare ingenua, non chiude gli occhi sulle sofferenze, sulle oppressioni, sulla tragicità della condizione umana. Ma dall’altra parte pone una tenace difesa alla speranza.

Una speranza che, se fondata sugli uomini apparirebbe precaria come sono gli uomini stessi, ma se fondata sul legame che ci stringe in unione al Figlio di Dio può far fronte ad ogni paura, impedire che diventi cupa rassegnazione, motivare la reazione sia individuale che comunitaria, far fiorire mille forme di fratellanza.

In questo modo, se ci lasciamo sostenere dalle parole delle Scritture che ci vengono offerte in questo tempo liturgico e dalla luce del Natale che lo orienta, veniamo difesi dalla depressione.

Restiamo aperti, per accorgerci degli altri, per stabilire con loro rapporti di solidarietà, quando c’è bisogno anche di sostegno, di conforto, di aiuto concreto, di condivisione.

E veniamo difesi anche dalla spinta verso l’aggressività, che rovina i rapporti familiari e sociali e ci rende invece ragionevoli e lucidi nell’individuare il nemico attuale, la pandemia, e ci dona motivazioni e forza interiore per combatterlo, usando i mezzi che via via vengono trovati.

Questa estate troppi davanti al problema posto dal virus hanno reagito chiudendo uno o tutti e due gli occhi. È umanamente comprensibile, ma i danni che stiamo subendo sono gravi.

È indispensabile tenere insieme lucidità mentale, speranza paziente e testarda, fratellanza tra di noi, animata da vero amore: sono doni che in questo Avvento dobbiamo chiedere a Dio. Attraverso il suo Spirito, accolto in molti cuori, constateremo che il Figlio di Dio come salvatore continua a venire in nostro aiuto.