L'Editoriale
Lo specchio del divario
Tra le tante considerazioni che si possono fare riguardo il coronavirus, una si impone mano a mano che la pandemia si diffonde per il pianeta. chi meno ha più paga, chi è socialmente fragile rischia di più, si espone di più, si ammala di più, soccombe di più.
Tra le tante considerazioni che si possono fare riguardo il coronavirus, una si impone mano a mano che la pandemia si diffonde per il pianeta. Ed è una legge antica che si riconferma: chi meno ha più paga, chi è socialmente fragile rischia di più, si espone di più, si ammala di più, soccombe di più.
E’ il caso dei numeri che arrivano dall’America, dove il fenomeno si è manifestato a partire dagli Stati Uniti: in Illinois il 43% delle vittime e il 28% dei positivi è costituito da afroamericani che però sono solo il 15% della popolazione; in Michigan il 40% delle vittime e il 33% dei positivi sono afroamericani (14% della popolazione); in Carolina del Nord il 31% dei morti è afroamericano (22% della popolazione). Lo stesso accade nel Connecticut e a Las Vegas. I picchi si registrano a Chicago e in Louisiana con analoghe proporzioni: 70% delle vittime è di colore, ma solo un terzo della popolazione è afroamericana (da una inchiesta del New York Times). E’ per questo che, al fine di non incentivare le proteste esplose con la morte di George Floyd, lo Stato di New York ha deciso di non rendere più note simili statistiche. L’inviato del Corriere della Sera, Massimo Gaggi (autore del recente volume “Crak America”) ha messo però in guardia: una reazione così diffusa e prolungata non si nutre della sola radice razziale. Incisive e scatenanti sono le ragioni sociali ed economiche che, nel caso specifico, si legano anche al colore della pelle. Quelle proteste dicono di lacerazioni sociali, di impoverimento di una parte importante della società con decine di milioni di persone senza copertura medica, di studi universitari dai costi inaccessibili a troppi, di una disoccupazione crescente e cresciuta per colpa del fermo da Covid19. Quei cortei sono figli di una parola: diseguaglianze.
Al Nord sta facendo eco il Sud del continente con un’America Latina che dalla settimana scorsa è il nuovo focolaio del mondo. In un Brasile (secondo paese per contagiati dopo gli Usa) dove la città di San Paolo compra container per i cadaveri, anche il presidente Bolsonaro ha deciso di oscurare i dati su contagi e decessi (10 giugno). Ugualmente travolti dall’emergenza sono il Perù (che la scorsa settimana ha toccato i 4000 contagi in 24 ore), seguito da Messico e dall’Argentina, dove – il copione si ripete – un terzo dei contagiati vive nei quartieri poveri, le “villas”, di Buenos Aires. In Venezuela, segnato dalla crisi fin dal 2016, oltre al virus si teme la malnutrizione.
Non sta meglio l’altra parte del pianeta: in India, salita al quarto posto tra i paesi al mondo più contagiati (al terzo c’è la Russia) con 12mila contagi al giorno la Corte Suprema ha denunciato le condizioni disumane negli ospedali. Il Pakistan, che ha riaperto dopo il lockdown, ha visto riesplodere i casi, come accade ora nella virtuosa Corea del Sud e nella stessa Pechino in Cina. In Iran si parla di 15 milioni di contagiati e nello Yemen alla guerra in corso si sommano tre epidemie: virus Chikungunya, colera e ora anche Covid19.
Nascere nero o latinos o povero (qualità che vanno spesso a braccetto) non è un vantaggio nel nostro mondo: in caso di pandemia ancora meno. Le disparità sociali ed economiche sono anche disparità sanitarie: il virus le sta mostrando tutte.
Se poi ci si aggiungono la fragilità e la differenza sociale che nascono da una patologia, allora la situazione tracolla. E’ il caso che sta sconvolgendo il ricco Canada, dove fa scalpore un protocollo sanitario del Quebec che stabilisce di non impegnare respiratori su contagiati con Sla, sindrome di Down, Parkinson o grave disturbo autistico. Ma anche dagli States sono emerse simili procedure. Altrove, come nel nostro paese, nelle ore drammatiche del picco dell’epidemia non sono mancate denunce riguardo la selezione dei pazienti da soccorrere con respiratori e bombole di ossigeno (sempre in numero inferiore al necessario).
La durezza di questi numeri dipinge l’estrema fragilità del mondo, che un invisibile virus sta mettendo in luce clamorosamente, come una lente di ingrandimento su tutte le ingiustizie, figlie del nostro sistema di vivere.
A gran voce il papa lo ricorda e, sabato 13 giugno, annunciando la Giornata mondiale dei poveri del prossimo 15 novembre, ci ha chiamati tutti in causa aggiungendo al titolo del messaggio un semplice aggettivo: “Tendi la tua mano al povero”.