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Vajont/2 Il racconto della maestrina Elvia Perosa che fu a Pineda e a Erto prima della tragedia
"Dicevano che piantavano le acacie sulle pendici della montagna - ricorda - così le acacie avrebbero tenuto su la terra perché non scivolasse. Dicevano che era meglio andare sui prati con la gerla: era capitato che, mentre camminavano sul monte per far erba agli animali, all’improvviso si aprisse un buco sotto i loro piedi. Ci erano cascati uomini e donne. Ma la gerla era grossa, non passava per il buco. E così era meglio girare con la gerla, che la gerla li avrebbe salvati...
Una cartolina, una foto, un invito a nozze, un incontro: questo trattiene della sua esperienza come maestra a Pineda e ad Erto, pochi mesi prima del disastro del Vajont, Elvia Perosa, allora maestrina al primo incarico, oggi ottantenne ricca di vita vissuta e di una meno abbondante salute.Nata a Palmanova nel ’39, genitori di San Michele al Tagliamento, un’esistenza passata tra Bolzano e Latisana, mamma di quattro figli, innamorata dei bambini ha consumato i suoi giorni a scuola, prima da maestra e poi da direttrice, ma è stata anche ambasciatrice dell’Unicef, oltre che autrice di più libri. A far da scudo alle malattie che oggi la invalidano, il suo grande spirito e la sua grande fede. Si definisce “un soldato di pace” ed è convinta di essere già stata graziata più volte: “Ho avuto una vita tribolata, ma non mi sono ribellata, ho sempre accettato quello che il Signore aveva deciso per me”.
MAESTRA A PINEDATutto cominciò da Pineda, dove fu dal gennaio al giugno del 1961. Ci arrivò, maestra per la prima volta, insieme alla prima figlia (“Una bimba malaticcia di 18 mesi” ricorda), mentre il marito, militare, era rimasto a Bolzano.”Come mi sono trovata? Basti dire che in poco più di cinque mesi la bambina è rifiorita e io sono ingrassata nove chili. E pensare che il provveditore a Udine me lo aveva annunciato come un inferno bianco”.Racconta la prima visita a Pineda, fatta prima di prendere il servizio insieme al marito in 500. Si erano mezzi persi al bivio tra Erto e Pineda, erano sprofondati nella neve rischiando l’osso del collo.Racconta la perplessità davanti alla stanza trovata come alloggio: un sottotetto senza soffitto, la notte scaldata solo dalle borse di acqua calda nel letto, i servizi a cielo aperto come tutti. Ma di quei mesi non ricorda tanto le scomodità quanto il calore della famiglia Carrara che la ospitava: di Maria, la padrona di casa e della sua meravigliosa polenta con le patate; del marito – poco astemio – che prese subito a cuore la sua bimba; di Gabriella, la figlia maggiore, che fu sua allieva anche se di soli 5 anni più giovane.Arrivarono i giorni trepidanti del debutto a scuola: “Erano le mie prime lezioni, io non avevo mai insegnato in vita mia. Mi toccò una pluriclasse: ho cominciato l’anno con 12 ragazzini, dalla prima alla settima – racconta Elvia -. Ma ho trovato l’immediata simpatia delle famiglie e in breve mi trovai con una classe da 22 alunni, compresi due di sesta, la Gabriella di settima e uno di ottava”.Tanti gli aneddoti legati a quei ragazzi: Osvaldo che dormiva sui banchi (scoprì che la colpa era della tazza di grappa con cui la famiglia faceva colazione senza distinzione di età); Gabriella, serva di tutti in casa che si alzava prestissimo per fare i lavori ma poi era sui banchi desiderosa di imparare; le lezioni che alternavano temi, spiegazioni e conti per portare avanti allievi di età diverse; i lavori fatti con le mani come gli animaletti di corda che, unitamente al clima instaurato, le meritarono il plauso dell’ispettore scolastico a fine anno. “Mesi belli – ricorda -. Ero per tutti ’la maestra’. E mi scoprii capace di capire l’ertano: “Verda Muselin…”.Al giovedì non c’era scuola: “Mi spostavo a Erto per prendere qualcosa per la bambina: mi insegnarono come scendere a valle passando per il torrente e risalendo dall’altro versante”. Era possibile: la diga era in costruzione, l’invaso era ancora vuoto. “Ad Erto prendevo quanto mi serviva, parlavo col prete e potevo incontrare gli altri insegnanti che da Pineda non vedevo”.Le è dolce il ricordo di come la borgata l’aveva accolta: “Pranzavo e cenavo all’osteria – una casa senza insegne ma piena di gente -, la mia bambina malaticcia rifiorì. Ho socializzato con tutti, mi trattavano bene: in casa dove alloggiavo, a scuola, con le mamme degli allievi -quella di Osvaldo faceva un dolce tipo pinza apposta per me -, perfino a Bepi dalla Bolp, cacciatore di frodo, che mi spiegò come faceva a capire quando era in azione il guardiacaccia Matteo. E quest’estate, parlando con Enrico Corona, fratello di Mauro, ho scoperto che si trattava del loro zio materno”.
I DISCORSI SUL TOCPranzando e cenando all’osteria, sentiva i discorsi. Parlavano di quello che andava capitando: “Dicevano che piantavano le acacie sulle pendici della montagna – ricorda – così le acacie avrebbero tenuto su la terra perché non scivolasse. Dicevano che era meglio andare sui prati con la gerla: era capitato che, mentre camminavano sul monte per far erba agli animali, all’improvviso si aprisse un buco sotto i loro piedi. Ci erano cascati uomini e donne. Ma la gerla era grossa, non passava per il buco. E così era meglio girare con la gerla, che la gerla li avrebbe salvati. E in seguito raccontavano che erano pure comparsi i cartelli: “Proibito camminare nei prati”.E l’uomo, che ogni mattina alle cinque passava ad accendere la stufa della scuola per far star caldi i bambini, che di mestiere faceva l’operaio alla Sade, cominciò a dire: “Non tireremo mai fuori tutta l’acqua che c’è nella montagna”. Era infatti addetto alle pompe idrovore che portavano l’acqua dal Toc alla Diga. Un mestiere che non lo salvò.E poi c’erano le cunette di cemento che erano state messe in certi posti lungo la strada. Ma succedeva che le cunette restassero sollevate rispetto all’asfalto che, insieme alla montagna, si stava muovendo.Elvia racconta: “Lo chiesi: la montagna si muove? Loro erano tranquilli, dicevano che aveva sempre fatto così. Più critici erano gli ambulanti, quelli che giravano coi mestoli o scendevano a valle con le piume d’oca da rivendere alle famiglie della pianura per i corredi delle spose. Loro avevano uno sguardo diverso, erano “combattenti” contro la Sade”.Ma arrivò l’estate, la scuola chiuse, Elvia tornò a Bolzano.
MAESTRA AD ERTOAd ottobre del ’61, col riaprirsi delle scuole, Elvia torna con la sua bambina e col pancione di quasi cinque mesi. Questa volta è ad Erto, ha una classe femminile di 24 allieve. Fu un’esperienza diversa: “Non mi era possibile arrivare a Pineda attraverso la montagna: durante l’estate era stata fatta una prova della diga e l’invaso era stato riempito. Non c’era più il torrente: c’era il lago”.Fece amicizia con Tonino, un ragazzo che lavorava in Germania, ma che in ottobre era a casa: col motorino, il giovedì che non c’era scuola, la portava a Longarone per acquistare il necessario. Ma i ragazzi del paese una sera lo circondarono: doveva lasciar stare la maestra.In classe c’era Margherita: un’allieva magra, i capelli lunghi, il visetto sofferente. Prima di andarsene (a fine gennaio ’62 per il congedo di maternità) ottenne una confidenza: era per quello che le aveva detto la nonna. E la nonna le aveva raccontato di una vecchia che, tanti anni prima, andava dicendo che Erto sarebbe andata “sotto una montagna di acqua”. La prova di riempimento estivo aveva scosso gli animi e in particolare quello di Margherita, che ne era spaventata.”Ad Erto – spiega Elvia – feci amicizia con una maestra di Genova, Nelli Da Villi. La mia terza figlia, nata ad un anno dalla seconda (una a marzo ’62, l’altra a marzo ’63), deve a lei il suo nome”.Quelle due nascite ravvicinate fecero sì che la sua esperienza a Erto si fermasse a gennaio del ’62, coi lavori della diga a buon punto. Ricorda con i brividi: “Non potendo immaginare le due gravidanze, prima di andare via mi ero interessata a San Martino: stavano costruendo nuovi appartamenti. Avevo pensato che, tornando dopo il parto, potevo trasferirmi lì, portando le bambine e mia madre come aiuto”. Andò tutto diversamente.Seppe che la supplente che la sostituiva a San Martino fu tre le vittime del Vajont. Solo cinquant’anni dopo, nel 2013, partecipando al Premio di poesia Nelso Tracanelli a San Michele al Tagliamento, conobbe la poetessa di Claut, Bianca Borsatti, che era una maestra. Ebbene, questa le si presentò come la sua supplente. “Non è possibile – rispose Elivia -. La mia supplente è tra le vittime del Toc”. Ma Bianca le spiegò come erano andate le cose: per otto giorni lei era stata la sua supplente a San Martino, ma proprio il giorno prima della tragedia aveva scambiato quella cattedra con un’altra supplente che veniva da Sacile, Ida Ceschelli. E Ida fu la vittima.
LA TRAGEDIAIl 10 ottobre del 1963, ignara di tutto, Elvia uscì dalla sua casa di Bolzano di buon mattino per acquistare la colazione alle bambine. Come la vide il commesso degli alimentari le corse incontro: “Signora, si è rotta la diga al suo paese”. Ricorda di aver pensato: “Non può essere, se casca la diga porta via tutto”…Poi ci fu il resto: le notizie, i morti, le immagini, l’intervento dell’esercito, tra cui i colleghi elicotteristi del marito e il marito stesso con i camion. Ma Elvia su questo tace.Solo nel ’75, e dietro insistenze, è tornata ad Erto: “Temevo nel farlo. E infatti, solo al vedere la montagna tagliata a metà, mi è preso un qualcosa… non riuscivo ad andare avanti. Lo ricordo mal volentieri e sto male. Preferisco ricordare le vite”. Così nel suo Vajont cisono Gabriella, Tonino, Maria con la sua polenta, Osvaldo col suo sonno, Margherita con la sua paura e le astuzie di Bepi dalla Bolp”.
QUANTO LE RIMANEL’INVITO A NOZZE. Racconta: “Dopo il disastro del Vajont, un giorno a Bolzano mi arriva Gabriella, la mia allieva quasi coetanea. Era scappata di casa. ’Io ti posso tenere – le dissi – ma dobbiamo avvisare i tuoi’. E i suoi vennero a riprendersela: “Maria con la polenta e patate”. Per anni non seppe più niente. Poi, un giorno ricevette un invito a nozze: era di Gabriella. “Si sposava a Pordenone, al Santuario delle Grazie – continua Elvia -. Ho saputo che era andata a lavorare in Germania e là aveva trovato l’amore. Ora che andava sposa mi voleva al suo matrimonio. Feci l’impossibile per esserci: mi parve una visione quando la vidi entrare in chiesa col suo vestito bianco, col suo visone bianco. Come era lontana quella ragazza di montagna che avevo conosciuto. Eppure come era ancora lei: una giovane sana nel fisico forte, ma sana anche nel cuore buono. Ecco, se devo avere un ricordo di Pineda io penso a Gabriella sposa”.LA FOTO DI TONINO. Un altro giorno, sempre a Bolzano: “Mi trovai di fronte il papà di Tonino. C’era una simpatia tra noi, ma io ero una donna sposata, anche se di un matrimonio difficile. Tonino era una persona delicata, senza una parola o un gesto fuori posto. Si era confidato con il padre. E il padre venne a raccontarmi di lui: lavorava all’estero ma in ottobre tornava. La sera di quel 9 ottobre del ’63 Tonino era in casa, seduto al tavolo, la testa fra le mani. L’urto d’aria colpì con violenza inimmaginabile. Morì sul colpo: gli cedette il cuore. L’orologio fermo alle dieci e quaranta di sera. Il padre era venuto a portarmi la sua foto: “La stringa al cuore”. Le persone si tengono in vita anche ricordandole.LA CARTOLINA DEGLI ALUNNI. E giunse ancor più inaspettata, una ventina di giorni dopo la tragedia, una cartolina: “Cara maestra noi siamo vivi” seguita da nove firme dei bambini di Pineda, tra cui Osvaldo. Erano ricoverati all’ospedale di Pieve di Cadore. Elvia la ricorda con una commozione e affetto materno, come non dimentica il suo primo pensiero: adottare chi era rimasto solo.UN INCONTRO D’AUTORE. E qui si arriva ad oggi, a luglio 2019. Elvia si trova con amici a Lignano. C’è una presentazione di libri: l’autore è Mauro Corona con “Nel muro” (incontro organizzato da Pordenonelegge con Alberto Garlini al Palapineta la sera del 18 luglio).Il tempo consuma i giorni e lei non ha mai parlato con Mauro, che è di Erto. Si fa portare all’evento, siede in prima fila, gli occhiali scuri e un cappellino bianco in testa. Quando si apre lo spazio delle domande, lei con un fil di voce: “Io sono stata maestra a Pineda e a Erto”. Non serve altro: Mauro le chiede subito di fermarsi. Mentre lui è trattenuto sul palco da una fila di autografi, suo fratello Enrico avvicina Elvia. Cominciano a parlare, le prime domande testano la presenza, poi il dialogo si fa fitto. Arrivano i sorrisi stupiti alle frasi in ertano che Elvia ricorda, ai racconti di Bepi dalla Bolp e del guardiacaccia: “Ma quello era Matteo” pronuncia incredulo Enrico, che ben lo conosce. Tutto torna. Ed Elvia può deporre il fiore di questo bel ricordo sul macigno del Vajont che non vuole sollevare.Grazie ad Elvia Perosa che, pur in giornate tormentate dalla malattia, ha accettato di condividere con i lettori de Il Popolo questi ricordi belli e dolorosi insieme (dai quali abbiamo espunto alcuni cognomi).Simonetta Venturin