9 ottobre 1963- 9 ottobre 2019: Anniversario del Vajont. La maestra Luciana, superstite, racconta

  Incontro la signora Luciana Zambon Rodaro nella sua casa di Cordenons. Ha accettato di parlare della tragedia del Vajont, vissuta quando, giovane maestra, aveva appena raggiunto Erto nei primi giorni di ottobre del 1963.

  Incontro la signora Luciana Zambon Rodaro nella sua casa di Cordenons, piena di ricordi. Ha accettato di parlare della tragedia del Vajont, vissuta quando, giovane maestra, aveva appena raggiunto Erto nei primi giorni di ottobre del 1963 (allora l’anno scolastico iniziava in quel mese).E’ emozionata, la telefonata che ha preceduto la mia visita le ha fatto riaffiorare tanti ricordi dolorosi. Le siamo particolarmente grati per aver accettato di incontrarci, nonostante la sofferenza. La maestra ha recuperato uno scritto, che nel 2003 aveva steso dedicandolo al nipote Riccardo. Legge e commenta con particolari.

“Erano i primi giorni di ottobre. La scuola iniziava il primo ottobre, ma le supplenze venivano assegnate la settimana successiva. Ero stata in Direzione a Montereale per scegliere la supplenza in Valcellina. Ero fra le prime in graduatoria: S. Martino di Erto, pluriclasse, un anno intero – Erto venti giorni. Scelsi Erto perché dovevo studiare per il concorso e poi pensavo di non essere in grado di fare la pluriclasse. All’uscita, verso la piazza, incontrai Tina che già aveva scelto Pinedo per tutto l’anno. Mi disse: “Ti insegno io a fare la pluriclasse, scegli S. Martino”. Ritornai sui miei passi.Il papà mi stava aspettando con la sua Guzzi rossa fuori della scuola. Mi chiese: “Dove vai?”-“Vado a cambiare la sede” e gli spiegai la faccenda. Vedendo le mie perplessità mi domandò: “Ma a te dove piace andare?”-“A Erto”, risposi con sicurezza. “E allora, non sei mai morta di fame, resta lì” taglio corto il papà. Fu così che mi salvò la vita.La Iducci Ceschelli che andò a S. Martino e fu ospite dell’unica casa nuova in riva al lago che alloggiava le insegnanti, scomparve per sempre 40 anni fa. Era figlia unica di madre vedova e stava per sposarsi.A Erto eravamo in quattro insegnanti: la Luigina Fantin di Barcis, una maestra di Ancona, una di Genova ed io.Salimmo il 7 ottobre. Tutto il pomeriggio percorremmo in lungo il paese alla ricerca di un alloggio, anche verso il promontorio del cimitero. Nessuno voleva ospitarci perché erano arrabbiati con le maestre precedenti. Verso sera quando già stavamo per telefonare in Direzione che saremmo rientrate, una persona ci disse: “Non vi lasceremo dormire sulla strada, ci aprì la porta di un edificio a due piani in centro. Al primo piano c’erano la cucina e una camera e di sopra altre due camere. La mia dava sul lago.A scuola i bambini (di quarta) parlavano della strada che si apriva, della montagna che stava per franare. Uno abitava anche nei pressi della diga, perché il papà lavorava alla Sade. Mi prestò un sussidiario che conservo tuttora, non avendolo più potuto restituire.Al martedì pomeriggio, assieme alla Iducci, passeggiammo lungo la strada principale, poi lei se ne andò a S. Martino. Mi volsi indietro e la salutai con la mano. Fu l’ultimo saluto!Il mercoledì, 9 ottobre, stavo studiando per il concorso, ero appena risalita dal sottoscala dove c’era il gabinetto. Erano le 22 e 40, vidi la luce lampeggiare. Mi dissi: “E’ meglio che vada a letto prima che manchi la luce”. Ma all’improvviso le tendine alle finestre cominciarono a sollevarsi e un fragore immenso, come quello di 100.000 carri armati che passassero sulle mie orecchie (questo era il rumore più forte di cui avevo esperienza a S. Leonardo) invase l’aria. “Ma non ci sono carri armati a quest’ora!”. Poi fu il buio totale.Mi affacciai all’uscio, le altre due maestre erano in pigiama. Scendemmo le scale, chiedendo cosa stesse succedendo. Sulla strada buia la gente correva e gridava: “Sta crollando la montagna. Si salvi chi può”. Un uomo con una “Topolino” disse: “Voi siete le maestre, non avete nessuno, salite in macchina che andiamo a S. Martino”.Ma a S. Martino l’autista si fermò: la strada era sbarrata da tronchi d’albero e l’acqua vi scorreva abbondante. Le altre maestre cominciarono a urlare. Risalimmo in macchina e ci fermammo dove erano le scuole, verso la parte alta del paese. Lì rimanemmo fino a mezzanotte quando il maestro Martinelli, che era anche sindaco, fece evacuare il paese dicendo: “Si salvi chi può” e lui scese per una scorciatoia verso Cimolais, per chiedere aiuto.Con le torce alcuni ci fecero da guida e salimmo in alto, sulla montagna dirimpetto. In una casa ci ospitarono perché eravamo le maestre e lì, in una stanza con il camino e sopra una sveglia, aspettammo in silenzio che arrivasse l’alba. Giungeva notizia di qualche casa crollata, di qualche ferito. “Ma perché da Longarone non ci portavano aiuti?”.E da Pinedo giungevano grida d’invocazione di aiuto. Ma il buio infinito bloccava tutto. Alle prime luci dell’alba, quando sull’orizzonte apparvero i primi elicotteri, lo spettacolo che ci apparve davanti agli occhi fu atroce e indimenticabile, sembrava che una piovra mostruosa e gigantesca avesse divorato da metà in giù i fianchi della montagna, il ponte, le case tutte.L’acqua del lago era di color marron scuro su cui galleggiava di tutto. Non si vedeva ancora da lì il monte Toc, che era precipitato dalla cima, a metà, sul lago. Gli infermieri armeggiavano attorno alle case di S. Martino ancora in piedi per raccogliere morti e feriti.Quando, piangendo, oltrepassammo quel punto, ci sentimmo dire “Non piangete per qua, di là (e intendevano dire Longarone) ci sono tantissimi morti. Ma non sapevamo ancora, non potevamo immaginare che l’onda gigantesca aveva distrutto Longarone e tanti altri paesi. Questo non potevamo neanche supporlo, perché da lì non si poteva avere la visione di ciò che era realmente successo. Intanto al mio paese, la radio aveva dato questa notizia: “A Erto e in tutte le sue frazioni non c’è più segno di vita”.La Catinetta, che ascoltava ogni giorno la radio, riferì questa notizia a mie sorelle. Mia mamma era a Malnisio in bicicletta per fare la spesa allo spaccio della Sade. Mie sorelle dissero: “Ma a Erto c’è la Luciana!” e presero un taxi per Malnisio. Fu così che fui data per morta e quando rientrai in paese ci fu un peregrinare continuo di persone che venivano a trovarmi. Ma io ero scossa: sentivo nelle mie orecchie quel rumore infernale ed ero percorsa da un tremito continuo. Ritornai lassù, accompagnata da Nello, a ritirare le mie valigie, i miei libri. C’era ancora sui fornelli la pentola con il minestrone che avevamo preparato perché l’indomani dovevamo scendere a Longarone. Fu per questo miracolo che io ebbi 40 anni di vita in più e che sono sempre stata grata a mio padre per avermi salvata la vita. Grazie, Signore, per questo tempo: spero di averlo impiegato bene, guidami tu per quello che mi resta”.

Dopo la lettura fattaci dalla maestra Luciana comprendiamo il perché di tanto dolore in lei e di tanta sofferenza nel raccontare. La maestra aggiunge che una sua collega da allora non ha più parlato di quel tragico evento. Lei è ritornata solo poche volte in quei luoghi, dove tutto è cambiato, solo per accompagnare una zia e il nipote che volevano vedere. Aggiungiamo che all’epoca la maestra Luciana risiedeva a S. Leonardo Valcellina. Il papà, originario di Cavasso, lavorava per la Sade presso la centrale del Partidor.Grazie maestra Luciana!Maria Luisa Gaspardo Agosti