L'Editoriale
Il bene del Paese senza infingimenti
Festa della Repubblica, 70 anni di Costituzione da una parte; strumentalizzazioni della prima e non perfetta conoscenza della seconda dall'altra. E sopra tutto la tensione politica in atto e mai così forte: stiamo forse scoprendo che il nostro sistema democratico - e quindi il nostro Paese - è fragile?
La nostra Costituzione entrò in vigore il 1° gennaio 1948: la festa della Repubblica è occasione per ricordarla. Al di fuori delle strumentalizzazioni che, quest’anno come non mai, si vanno annunciando alla luce della anomala situazione politica. Le belle parole della nostra Carta vi risaltano come solidi pilastri del nostro vivere al sicuro, protetti dalla fortezza chiamata Costituzione, baluardo di pace, lavoro, famiglia, solidarietà, giustizia fra popoli; difesa alle derive capaci di compromettere la vita del Paese meno in vista, quello che onestamente lavora, cresce, si impegna. Quello che tesse la vita ordinaria che, solo se minacciata, si intuisce straordinaria.
La scorsa domenica sera, le irruenti prese di posizione, gli attacchi al Presidente della Repubblica – e nel nome della stessa democrazia – hanno acceso una spia d’allarme: può il nostro sistema democratico ritrovarsi fragile? Quale verità se il baratro della incostituzionalità è – a seconda della posizione politica di ciascuno – nella imposizione degli uni o nel rifiuto degli altri? Benedetto XVI ha scritto che la moltiplicazione dei diritti può condurre alla distruzione dell’idea del diritto (Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio): è a questo che abbiamo assistito?
In una lettera congiunta a difesa del Presidente, quattordici costituzionalisti hanno ricordato quello che la Costituzione prevede (e “Che in troppi non conoscono” ha commentato Giovanni Maria Flick), dimostrando inconsistente l’accusa di impeachment: “L’ultima parola spetta al Capo dello Stato, il quale assume su di sé in pieno la responsabilità delle sue decisioni”.
L’ora è stata carica di tensione per l’immediato rimbalzo di accuse: i populisti non hanno difeso il popolo, hanno detto gli uni; il potere forte si erge sopra la volontà degli elettori, hanno risposto gli altri.
Ma oltre e al di sopra delle opinioni contano i fatti: specie in economia. Specie per il Paese: dal singolo cittadino all’azienda. C’è chi ha ricordato che, tra titoli di Stato e obbligazioni: “Il valore finito in fumo è di circa duecento miliardi in meno di un mese, quasi il doppio delle risorse che il contratto di governo si propone di distribuire in cinque anni” (Federico Fubini, Corriere della Sera, sabato 26 maggio). E’ fatto, non opinione, che il popolo tutto “dai neonati ai centenari” nelle ultime settimane sia realmente diventato più povero. Se vi si aggiungono le impennate dello spread, le cadute della borsa e la questione dell’aumento dell’Iva si trovano le radici della scelta di Mattarella. Fatti non taciuti ma tacitati da chi volge lo sguardo alle prossime urne.
Comunque la si pensi, è auspicio comune che, chi si mette alla prova del Governo ricordi che c’è un popolo, tutto un popolo, che si merita di essere guidato e tutelato. Che chi assume il comando lo faccia nel rispetto e dall’alto delle istituzioni, in dialogo con l’Europa, anche in disaccordo se necessario, ma nell’alveo incontestabile e sapiente del diritto. Dall’alto delle istituzioni e non delle piazze: non perché le piazze non siano un valore, al contrario, poiché lo sono mai devono venir usate. E le piazze, a chiunque si appresti a guidare la Nazione, chiedano di incarnare quel surplus di onestà, lealtà, capacità e lungimiranza al fine solo e unico di fare, senza infingimenti, il bene del Paese.