Speciale Coronavirus tra atavica paura delle malattie infettive e globalizzazione del contagio
Intervista al sociologo Vittorio Filippi
Strade vuote e supermercati pieni. Poca gente in giro ma ressa alle casse e scaffali presi d’assalto. E’ accaduto la scorsa settimana alla notizia che, Veneto e Friuli, avrebbero tenuto chiuso scuole, chiese, cinema, teatri e stadi per limitare il contagio. Reazioni sproporzionate? E sono solo figlie del Coronavirus o c’è una paura ancestrale che si risveglia in noi? Ne parliamo col sociologo Vittorio Filippi.
Come si spiegano questi fatti? Come si spiega questa paura collettiva?
La paura della epidemia ha due radici, due cause.
La prima radice viene dal fatto che sempre - e la letteratura lo dice ancor meglio della sociologia - le malattie infettive creano fantasmi perché invisibili, imprevedibili e legate alla paura del contagio, quindi alle relazioni umane. La controprova che ben conosciamo, infatti, è che malattie molto più temibili come le cardiopatie e il cancro, che sono tra le prime cause di morte nel nostro paese, non essendo trasmissibili non suscitano tale paura. Quindi questo Coronavirus fa paura perché si teme il contagio e quindi il contatto tra persone.
La seconda radice è racchiusa nella parola globalizzazione. Una globalizzazione che si manifesta in pieno e che non è quella economico-finanziaria a cui si pensa di solito. Questa volta è una globalizzazione sanitaria, che dimostra quanto siamo interconnessi. Tanto interconnessi che è difficile parlare e fare controlli. Non siamo più al tempo del castello, quando bastava alzare il ponte levatoio ed era fatta. Oggi questa epidemia dimostra che il mondo globalizzato è bello ma a è più fragile, perché tutto è interconnesso.
Il gruppo aumenta la paura? Ovvero il comportamento del singolo sarebbe più contenuto rispetto a quello collettivo?
Non siamo più soli e le aree colpite in modo particolare. Oggi ciascuno non è solo in relazione col suo gruppo o paese. Si può dire che la Val Padana, dal Piemonte al Friuli Venezia Giulia, sia ormai un unico grande paese senza soluzione di continuità. Viviamo immersi in una realtà globale.
Di fronte ai supermercati presi d’assalto la domanda sorge spontanea: paura del virus o del frigo vuoto?
Nel ’600 ci fu l’assalto ai forni. Lo descrive molto bene Alessandro Manzoni. E’ l’atavica paura di essere soli e senza difese. Là dove anche il cibo è una difesa, la prima. Quel dire: manca il pane… Certo questo è per noi oggi paradossale, in un’epoca in cui i frighi sono strapieni e il cibo è ovunque, al cucina trionfa.
E la corsa è stata alle mascherine e ai disinfettanti per le mani?
Giocano motivi irrazionali. La paura è irrazionale per definizione, irrazionale al 100%.
Oggi siamo più paurosi di un tempo?
La novità di oggi è che le paure viaggiano ad una velocità molto maggiore e hanno una cassa di amplificazione che è globalizzata. Quindi viaggiano veloci e in tutto il mondo mentre un tempo erano più lente e meno diffuse.
Nella nostra epoca quali altre paure collettive ci sono state, che poi abbiamo rimosso?
Nessuno più ricorda la Sars o la paura della Mucca pazza o l’Aids, anche se questo ha avuto un diverso valore culturale e comportamentale.
E paure non legate alla malattia?
Negli anni ’60, in piena guerra fredda, c’era la minaccia atomica che trovò il suo culmine nell’episodio dei missili puntati contro Cuba. Forse da noi non arrivò tanto ma negli Stati Uniti aveva dato origine ad una vera isteria collettiva. Ci fu un boom di bunker antiatomici costruiti per sopravvivere ad una guerra nucleare sentita come possibile. Certo, sono rimasti tutti là e ora non si costruiscono più.
Di fronte a tanti casi gli altri paesi avrebbero reagito come noi o in maniera diversa? Ci abbiamo messo passionalità anche nella reazione al virus?
Ogni paese si comporta a suo modo, perché ogni paese ha la sua struttura demografica. Poi la reazione della popolazione dipende anche dal sistema sanitario, dalle attese e dalle risposte. Però non ho visto scene di panico, né atteggiamenti pesantemente irrazionali. Anche il blocco del Carnevale di Venezia, salvo lamentele di ordine economico, non ha creato alcun ché. Le persone hanno accettato senza polemiche.
Cosa ci insegna questa paura di oggi, figlia del Coronavirus?
Il mio lavoro è razionale e guarda ai fatti. Ad oggi, mercoledì 26 febbraio su 11 vittime, dieci sono anziani, una sola aveva 62 anni. Anche se il coronavirus fosse una bulle de savon (bolla di sapone) e se ne andasse via così come è venuto, a noi italiani ha fatto toccare con mano che abbiamo una popolazione molto anziana e questa ne è stata l’ennesima dimostrazione. Giovani e bambini per fortuna non sono colpiti, questa epidemia colpisce le popolazioni anziani e noi ne siamo stati molto colpiti. Dobbiamo capire che siamo un paese con crescente fragilizzazione per motivi squisitamente biologici e demografici. E questa è una razionale constatazione, non una irrazionale paura.
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