Gli Alpini dispersi in Russia
La battaglia di Nikolajewka delle 100mila gavette di ghiaccio
L’ultima domenica di gennaio gli alpini si trovano per ricordare la battaglia di Nikolajewka in cui molti loro amici persero la vita. Altri morirono nella terribile ritirata a piedi lungo la steppa gelata. Erano partiti in centomila su 210 convogli. Sono rientrati uno su dieci in 17 tradotte.
E’ stata una spedizione scriteriata in una guerra sciagurata, eppure ancora oggi gli alpini la ricordano perché loro si sono fatti onore fermando per una decina di giorni l’Armata rossa, permettendo così agli altri reparti di ripiegare con ordine. Rimasti intrappolati, si aprirono una breccia nel massiccio accerchiamento. Poi attraversarono a piedi la steppa ghiacciata per tornare a casa.
L’esercito italiano partecipò alla campagna di Russia con un contingente ingente di soldati. Gli alpini erano centomila, l’ottava armata. Quarantamila sono caduti in battaglia e 38 mila si sono scomparsi sulla via del ritorno. Di molti non si è più saputo nulla. Dopo la caduta del muro di Berlino, negli anni 90, sono stati ritrovati i resti di 12mila caduti, accolti nel sacrario di Cargnacco; circa tremila sono stati identificati grazie alla piastrina o ad altri documenti che avevano indosso.
Il 17 gennaio l’Armata russa sfondò il fronte italiano e l’ottava armata fu accerchiata. Fu allora che gli alpini scrissero una pagina epica. Combattendo da leoni si aprirono una breccia nell’accerchiamento e iniziarono una ritirata che può essere paragonata a quella che Senofonte narra nell’Anabasi.
I reduci ci hanno raccontato vari episodi di coraggio e di aiuto reciproco.
Personalmente ho sentito le testimonianze di tre reduci che ricordavano quei tragici giorni come un incubo. Due di loro sono poi morti per cancrena in seguito al congelamento. Uno si svegliava di notte chiamando per nome gli amici caduti che gli riapparivano nei sogni. Un altro, quando sentiva fischiare il vento, scoppiava in pianto. Gli pareva di continuar a camminare nella morsa del gelo.
Erano giovani o uomini maturi i soldati che, tra il dicembre del 1941 e il gennaio del 1942, parteciparono alla guerra di Russia. Il 16 gennaio 1942 il Comando ordinò la ritirata. Per evitare che l’intero esercito fosse accerchiato fu chiesto all’ottava armata, gli alpini, di tener testa all’Armata rossa.
Furono 10 giorni di tragedia. Si stima che fossero oltre centomila le penne nere impegnate nella disperata resistenza e quarantamilia i caduti i battaglia. Molti poi morirono di freddo e di stenti nella sterminata steppa gelata. Alcuni sono riusciti a tornare e ci hanno raccontato storie terribili che, rileggendole a distanza di anni, ci mettono ancora i brividi.
"Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso nel fucile mitragliatore arroventato, ho ancora nelle orecchie, fino al cervello, il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli starnuti e i colpi di tosse delle guardie russe, il suono delle erbe secche sbattute dal vento sulle rive del Don e quando ci penso provo ancora il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia ci scaraventò sopra le sue settantadue bombarde". Questo è l’inizio dello straordinario romanzo di Mario Rigoni Stern in cui racconta la tragica ritirata tra la fine del 1941 e l’inizio del 42 delle nostre divisioni attraversando la sterminata steppa russa.
L’autore racconta i fatti da dentro, in prima persona in un diario in cui riviviamo come una cronaca quotidiana i fatti, le emozioni, gli scontri bellici, l’inclemenza di quel terribile inverno in cui camminarono per ottocento chilometri.
Centomila gavette di ghiaccio è il romanzo autobiografico di Giulio Bedeschi, composto tra il 1945 e il 1946 e pubblicato nel 1963 dall’editore Mursia che nel 1964 vinse il premio Bancarella.
Da allora è diventata una delle opere della letteratura di guerra con oltre tre milioni di copie vendute in 130 ristampe e con traduzioni in francese, spagnolo, portoghese e olandese. Nel 2012 l’editore ha annunciato che la nuova edizione aveva venduto oltre 4 milioni e mezzo do copie.
Inizialmente il libro era molto più lungo, con il racconto che terminava l’8 settembre 1943 invece che al passaggio sulla frontiera della tradotta che riportava in Italia i sopravissuti nell’aprile del 1943, ma l’editore chiese all’autore un tragico taglio alla lunghezza.
L’autore, che visse l’esperienza come tenente medico degli alpini, narra tanti episodi che testimoniano il coraggio e la fraternità dei soldati con la penna sul cappello, in quei tragici giorni. Alcune pagine emozionano ancora, come quella in cui racconta il Natale al fronte: "Improvvisamente scese profonda la notte di Natale, silenziosa e struggente come la sentirono i soldati lontani da ogni bene, dispersi nel buio, prossimi alle stelle".
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