Cardinale Gualtiero Bassetti: omelia in Santo Stefano a Concordia Sagittaria
Una cerimonia solenne lo è sempre, il 3 agosto, festa del patrono della Diocesi in cattedrale Santo Stefano a Concordia Sagittaria. Ma quest'anno lo è stata come mai: presieduta dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, alla presenza di tre nostri vescovi: S.E. Giuseppe Pellegrini, S.E. Ovidio Poletto e S.E. Livio Corazza. A seguire l'omelia del cardinale.
Con animo grato al Signore, celebro la divina liturgia in questa antica e perinsigne cattedrale di Santo Stefano in Concordia, più volte riedificata sulle proprie rovine, culla della fede cristiana in questa terra friulana, che fin dai primi secoli accolse il messaggio salvifico e liberante del Vangelo di Gesù. A causa di ciò, molti cristiani vennero perseguitati e uccisi e le loro reliquie sono gelosamente custodite nella cripta, ormai santuario diocesano della fede. Saluto con fraterna amicizia il carissimo vescovo Mons. Giuseppe Pellegrini, Mons. Ovidio Poletto, vescovo emerito che per numerosi anni ha servito questa Chiesa, Mons. Livio Corazza vescovo di Forlì-Bertinoro, sino a febbraio scorso parroco di questa Cattedrale, tutti i sacerdoti e i consacrati qui convenuti. Un deferente omaggio rivolgo alle autorità civili e militari presenti.
Carissimi, la memoria del rinvenimento delle reliquie di santo Stefano ci permette di riflettere sulla figura di questo primo martire delle origini cristiane, di cui racconta Luca negli Atti degli Apostoli. Come nel suo primo libro aveva narrato la morte del Messia, ora l’evangelista racconta quale testimonianza – martirio, in greco – ha dato il protomartire.
Si tratta infatti di una vera e propria testimonianza, come quella di cui parla Gesù nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Il Signore rivolge ai Dodici le istruzioni su quello che dovevano fare e dire per annunciare il Regno. A guardar bene, i discepoli – stando a questo discorso – sono inviati più a compiere gesti, che a pronunciare parole. L’unica cosa che Gesù chiede loro di “dire” è che il Regno è vicino (Mt 10,7), ma il resto delle sue istruzioni sottolinea piuttosto l’atteggiamento che i discepoli devono tenere per portare l’annuncio evangelico e, come dirò meglio, per dare testimonianza nella persecuzione. Rileggendo il discorso, scopriamo alcuni elementi importanti.
Anzitutto, i dodici ora possono partire perché prima sono stati con Gesù: missionari ed evangelizzatori non ci si improvvisa. Questo risulta tanto più vero nel mondo di oggi, che richiede cristiani convinti, formati, consapevoli della ricchezza che possono donare agli altri. Gesù chiede poi di compiere quella evangelizzazione che oggi definiremmo, con Papa Francesco, «da persona a persona» (Evangelii gaudium 127): gli inviati devono entrare in una casa e rimanervi, cioè stringere relazioni, senza pensare di imporre qualcosa, ma piuttosto, scrive il Papa, con una «predicazione sempre rispettosa e gentile, il cui primo momento consiste in un dialogo personale, nel quale l’altra persona si esprime e condivide le sue gioie, le sue speranze, le preoccupazioni per i suoi cari e tante cose che riempiono il suo cuore» (128). Si tratta di un annuncio che «compete a tutti noi come impegno quotidiano. […] È la predicazione informale che si può realizzare durante una conversazione ed è anche quella che attua un missionario quando visita una casa» (127).
Ma ecco, dice il Maestro, può anche accadere qualcos’altro. Gesù non nasconde ai suoi le difficoltà, anzi ha la preoccupazione di avvisarli che possono essere rifiutati, e con loro anche il Vangelo. Guardando coi nostri occhi, diremmo che Gesù li mette in guardia su un possibile fallimento, ma per lui non è così. Anzi, nel brano appena proclamato, il Signore dice ai discepoli che, se saranno condotti davanti a governatori e re per causa sua, sarà «per dare testimonianza a loro e ai pagani». Proprio questo accade al protomartire Stefano: la sua morte, che apparentemente è una sconfitta capace di causare la fine stessa della comunità di Gerusalemme, darà luogo invece ad una vera fioritura cristiana.
È qui che penso soprattutto a voi sacerdoti: la più grande testimonianza allora è quella che viene non dalle parole, ma dalla vita, e da una vita spesa, come ha fatto Stefano, a servizio degli altri. Abbiamo ancora bisogno di una tale diaconia, che secondo il libro degli Atti aveva a che fare con l’attenzione a una delle categorie più povere della società di allora: quella delle vedove. Stefano, addetto al semplice ma prezioso servizio alla mensa, diventa modello di carità verso «vedove, orfani e stranieri», coloro che sono indicati in diversi testi biblici come i più bisognosi (ad esempio Es 22,20-21;Dt 24,19).
Carissimi sacerdoti qui presenti, permette un pensiero particolare a voi. La memoria del santo Protomartire ci ricorda che, anche nel nostro tempo, la testimonianza del Vangelo passa non tanto dai proclami, ma attraverso il servizio ai poveri, ai fragili, agli indifesi, ai non potenti. È in questo modo, con questo quotidiano “martirio”, che con il vostro servizio quotidiano la Chiesa può continuare ad annunciare quel Cristo che, nel giudizio finale, si rivelerà come il Povero e lo Straniero che avremo o non avremo accolto e accudito.
Carissimi sacerdoti, se ci guardiamo intorno, cosa possiamo dire della testimonianza di noi cristiani di oggi. I modelli di pensiero e gli stili di vita dominanti spesso confliggono con l’esigenza della vita nuova in Cristo. Che cosa sta succedendo nelle nostre antiche terre di fede cristiana? Siamo tutti più chiusi in noi stessi, noi sacerdoti compresi, e forse meno disposti a venire incontro alle esigenze del prossimo; siamo tutti più avidi di beni, come se questa vita non dovesse finire mai; siamo sempre più indifferenti o impauriti di fronte ad un mondo che continuamente ci interpella con le sue tragedie.
La solidarietà e la pietà, che erano il collante delle nostre comunità, sembrano essere svanite, nella notte nera dei rigurgiti egoisti. La partecipazione ai sacramenti e alla vita di Chiesa, fervente e generosa fino a qualche decennio fa, si sta affievolendo ovunque, e la precarietà economica di tante famiglie e di tanti giovani e anziani non favorisce quella attenzione generosa alla comunità. Un male profondo sembra esser sorto all’interno della società come della Chiesa: un senso di smarrimento ci assale ogni giorno dinanzi ai drammi della violenza, della droga, del gioco d’azzardo, dell’immoralità e dell’arroganza diffusa, del disprezzo della vita e della dignità delle persone.
Sono questioni di fronte alle quali siamo chiamati a riflettere come Chiesa e come singoli, senza soccombere, guidati dalla forza e dalla luce del Cristo risorto e dal coraggio dei martiri, che non hanno avuto paura dei drammi del loro tempo. Grande fiducia riponiamo nei giovani, speranza della Chiesa e di un mondo nuovo. Saluto volentieri i gruppi giovanili della Diocesi di Pordenone-Concordia qui presenti guidati da don Davide Brusadin responsabile diocesano della pastorale giovanile che proprio oggi iniziano a piedi il pellegrinaggio con la prima tappa da Concordia a Pordenone sino al 10 agosto e che li porterà poi a raggiungere Roma per l’incontro con il Santo Padre, 11 e 12 agosto, in vista del grande Sinodo di ottobre dedicato proprio a loro: sarà, lo speriamo con tutto il cuore, un’occasione per mostrare a tutti il volto giovane della Chiesa, che, nonostante i tanti problemi dell’oggi, guarda al futuro con fiducia, certa che il Signore non farà mancare mai quelle forze vive e coraggiose, capaci di cambiare il mondo.
Il nostro compito, soprattutto voi sacerdoti, è di seminare speranza tra i solchi di una terra forse a tratti arida, ma pronta a rivelarsi rigogliosa e fertile se irrorata dall’amore di Cristo. Sull’esempio di santo Stefano e dei santi Martiri concordiesi, torniamo a testimoniare con coraggio vescovi, sacerdoti, religiose, laici il messaggio salvifico del Vangelo, capace, oggi come allora, di cambiare il male in bene, le tenebre in luce, la disperazione in gioia, la violenza in pace, la morte in vita: la vita immortale nella gloria del Padre! Amen!
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